17 agosto - Fritto misto
Il caos liste nel PD, le parlamentarie del M5S, la destra che fa la destra.
Ciao!
Siamo Simone e Pietro,
e ieri è stata una giornata piuttosto tranquilla. Ci sono tutti gli elementi per un numero dalla lunghezza finalmente accettabile. Vediamo cosa riusciamo a fare.
Ripartiamo da dove ci eravamo lasciati ieri: le liste del Partito Democratico.
Nelle ultime ore si è assistito ad un interessante valzer di rinunce alle candidature accompagnate da una buona dose di polemiche. Il caso più eclatante di cui vi avevamo parlato ieri, quello di Monica Cirinnà, si è risolto con un dietrofront: la senatrice Dem che aveva inizialmente rifiutato la candidatura nel collegio uninominale Roma 4 perché “non idoneo ai suoi temi”, ha deciso di ritornare sui suoi passi, benché ammetta di aver ricevuto “uno schiaffo” dal suo partito.
Unrelated ma è la storia più divertente che la riguardi.
Ma dato che la coperta è innegabilmente corta, per un problema risolto molti altri sono quelli che stanno nascendo.
Le situazioni più spinose:
Enzo Amendola, attuale sottosegretario alla Presidenza del consiglio con delega agli Affari europei, sarebbe in procinto di rinunciare alla sua candidatura in terza posizione nel listino plurinominale del collegio di Napoli, al Senato. A precederlo ci sarebbero uno scugnizzo doc come Dario Franceschini e la senatrice uscente Valeria Valente. Pare però che Letta stia facendo personalmente pressioni per convincerlo ad accettare la candidatura, ulteriori sviluppi nelle prossime ore.
Sempre a proposito di Letta: qualcuno lo avverta che la segretaria del PD Milano Metropolitana Silvia Roggiani, a 38 anni, qualche anno fa con un pizzico di fortuna sarebbe stata una splendida baby-pensionata. Altro che giovani.
Alessia Morani, ex sottosegretaria allo Sviluppo economico del Conte II e renziana senza nemmeno nasconderlo troppo, ha rifiutato la candidatura alla Camera all’uninominale di Pesaro e al terzo posto nel plurinominale. Pare, per valutazioni politiche: in un’intervista a QN ha dichiarato di “non condividere lo spostamento dell’asse del partito verso sinistra”. Quale sia questo spostamento, non è dato sapere.
Altre varie ed eventuali: In Campania rinunciano anche la casertana Sgambato (“mi è stata proposta una candidatura in posizione non utile”) e il salernitano Conte; c’è caos sull’uninominale di Pisa, dove la senatrice Caterina Bini, sottosegretaria ai Rapporti col Parlamento, sembrava pronta a ritirarsi, salvo poi smentire; infine la deputata Rosa Maria Di Giorgi, che era stata anche vicepresidente vicaria del Senato, dopo l’esclusione dalle liste sembra pronta ad abbandonare il partito.
Abbiamo promesso di restare corti, quindi non ci dilungheremo troppo nell’analisi di questa dinamica. Ci limitiamo a notare che candidarsi o restare in un partito solo finché si ha la certezza di un seggio sicuro rappresenti quanto meno una visione personalistica della politica.
Andare a far politica in collegi “non adatti ai propri temi” o “non utili” serve a renderli, nel tempo, un po’ più adatti e un po’ più utili. È un lavoro paziente e a tratti frustrante, ma è la base del fare politica. Se c’è chi si ritiene al di sopra di questo compito, forse sono quei collegi a meritare rappresentanti migliori di quelli che vengono loro prospettati. E per quanto riguarda coloro che adesso fanno “il gran rifiuto”, un periodo di distanza dai palazzi non potrà che fare bene.
Qualche settimana fa le prime pagine dei giornali erano tutte per la decisione presa dal Movimento 5 Stelle di far rispettare in maniera ferrea la regola che impedisce a chi ha già fatto due mandati di ricandidarsi.
A parte qualche strascico legato a evidenti problemi con l’aritmetica di Virginia Raggi (che di mandati ne aveva già fatti tre, e comunque sosteneva di essere candidabile), la rigidità voluta da Beppe Grillo era stata accettata di buon grado, anche da esponenti importanti come Alfonso Bonafede e Roberto Fico.
A seguito della baraonda di critiche, rinunce, polemiche scaturite dalla pubblicazione delle liste del PD ci sembra una reazione tutto sommato pacifica.
D’altronde chi ha fatto due mandati si sarà pure stancato di vivere di scatti di rabbia.
Ieri ci sono state le parlamentarie dei 5 Stelle, e hanno votato circa 50.000 persone. Non proprio un’infinità di persone, soprattutto visto il numero di iscritti (133.664). Ma si tratta comunque di più persone di quelle che votarono alle parlamentarie del 2018, quando si espressero in circa 39.000. Il listino di Conte formato da 17 nomi per i capilista è stato approvato con l’86,54% dei voti.
Intanto, il leader del M5S ha rilasciato un’intervista al direttore della Stampa, Massimo Giannini (qui in formato video e ripubblicata sulla versione cartacea di oggi). Ci sono dichiarazioni interessanti, oltre alle solite sparate su Draghi, Letta e Di Maio, che accusa di essere i veri fautori della caduta del governo pur essendo rispettivamente capo del governo e due dei quattro leader ad aver votato la fiducia oltre a Renzi e Calenda.
Ripropone il cashback come alternativa sostanziale alla flat tax della destra, rivendica il ruolo del superbonus nell’averci reso «locomotiva d’Europa nel settore delle costruzioni» (noi ne abbiamo parlato qui) e si lancia in proposte ardite, senz’altro mai sentite nei 988 giorni in carica come presidente del Consiglio, come la diminuzione dell’orario di lavoro a parità salariale. Conte propone 36 ore, sostanzialmente una via di mezzo tra i quattro e i cinque giorni lavorativi.
Dopodiché si è dato al funambolismo.
Le proposte sul mondo del lavoro, almeno per 5 Stelle e Partito Democratico, stanno iniziando a diventare una carta da giocare in questa campagna elettorale. In un’intervista al Corriere, anche il vicesegretario del PD Giuseppe “Peppe” Provenzano ha rilanciato una proposta sul mondo del lavoro, ovvero l’aggiunta di una quindicesima mensilità di stipendio. A inizio luglio, Enrico Letta parlava di quattordicesima, ma la proposta in qualche modo è lievitata dopo la caduta del governo e l’inizio della campagna elettorale.
Comunque, torneremo presto sull’argomento.
Qualche notizia sparsa sulla destra prima di salutarvi.
Matteo Salvini continua nell’operazione di riciclo del programma del 2018: dopo aver riproposto flat tax e pace fiscale, è la volta della proposta di abolire, di nuovo, la legge Fornero. La revisione legge sulle pensioni più impopolare di sempre continua a essere una priorità, e forse con un governo non tecnico che non tenti di difenderla (arrendendosi, poi, di fronte a sindacati non proprio incendiari) potrebbe essere rivista una volta per tutte. Rimane il dubbio, però, su quale sia la soluzione alternativa.
Berlusconi vuole tornare ai poliziotti di quartiere e pensa che Strade sicure sia una proposta vincente «per vigilare soprattutto nelle periferie e prevenire i reati nelle città».
Strade sicure per chiunque adori sentirsi fischiare dietro.
Vi ricordate il presidenzialismo, sogno di Giorgia Meloni? Ne parlavamo qualche giorno fa.
Ecco, non sorprendentemente a Matteo Renzi la proposta piace, anche se non nei termini proposti dalla destra. Preferirebbe l’elezione diretta del premier, il “sindaco d’Italia”: «Tutti coloro che ascoltano sanno che quando si vota per il sindaco è facile, poi magari si perde. Questo meccanismo è democrazia, funziona». Con il piccolo particolare che alle elezioni amministrative si fatica costantemente a raggiungere il 50% di affluenza.
Per gli amanti del brivido: sul Foglio, un annoiato Giampiero Mughini si lancia in considerazioni sull’attentato di Via Rasella e su quanto la Resistenza romana al nazifascismo sia stata tutto sommato inutile.
Direi che per oggi è abbastanza. A meno che non esca qualche altro video interessante.
A domani!