Ciao!
Siamo Simone e Pietro,
e oggi, a causa della pausa ferragostana, non ci sono giornali in edicola: ergo, siamo la vostra unica fonte d’informazione.
Il nostro messaggio di oggi per voi.
Andiamo subito al punto. Ieri, il Partito Democratico ha raggiunto un accordo sulla composizione delle liste. Lo ha fatto di notte, dopo una giornata di rinvii: la Direzione nazionale era prevista alle 11 di mattina, ma è iniziata solo alle 23. E come ogni resa dei conti che si rispetti, a far rumore sono soprattutto le “vittime” politiche, gli esclusi.
Ma andiamo con ordine.
C’è prima una premessa da fare. Perché il ruolo dei partiti è così importante nella scelta dei parlamentari? L’ultima parola non spetta agli elettori? Sì e no.
Torniamo di nuovo al punto di partenza: la legge elettorale. Come accennavamo qualche numero fa, questa legge elettorale, il Rosatellum, si compone di due parti: maggioritaria, per il 37%, e proporzionale, per il 63%.
Il disturbo ossessivo-compulsivo latente di Simone mentre osserva queste due percentuali senza alcun senso logico.
Letteralmente l’uomo che vuole vedere il mondo bruciare.
Per la parte maggioritaria, il discorso è semplice: i partiti scelgono chi candidare nei collegi, si corre tutti contro tutti, chi prende più voti entra in Parlamento. Semplice.
Le cose si complicano quando si arriva alla parte proporzionale. Nei collegi plurinominali, ogni lista ottiene un numero di seggi che dipende da vari fattori, che comprendono sia il risultato nazionale di lista e di coalizione sia il risultato a livello di collegio. Sono calcoli non semplicissimi - per chi vuole capirne di più vi rimandiamo a questo articolo molto ben fatto - e che spesso non sono chiari nemmeno a chi assegna i seggi: un contenzioso su un seggio da assegnare all’interno del centrodestra alle elezioni del 2018 si è chiuso solo nel dicembre 2021. Curiosamente, l’escluso è stato Claudio Lotito, presidente della Lazio.
Simone e Lotito concordano sulla legge elettorale.
La sostanza è che i seggi ottenuti dalle varie liste su base nazionale vengono ripartiti su base locale. Ed è qui che entrano in gioco i partiti. Il Rosatellum non prevede che gli elettori possano esprimere la propria preferenza sui candidati: chi ha già votato nel 2018 ricorderà che non c’è nessun nome da scrivere sulla scheda, si può solo indicare la coalizione e la lista. Sono i partiti a scegliere la probabilità di elezione di un candidato stilando degli elenchi, i “listini bloccati”, e procedendo ad assegnare i seggi sulla base di quell’ordine. Se nel collegio Gardaland 1 il Partito dei Draghi (dei, non di) ottiene quattro seggi, ad essere eletti saranno i primi quattro del listino.
Se dite che assomiglia a Renzi avete un umorismo bassissimo. Ma è vero.
I partiti quindi, decidendo l’ordine delle candidature e dove posizionarle (se in collegi più o meno “vantaggiosi”), hanno un peso specifico immenso nel decidere chi entrerà e chi no. Fatta questa premessa, che sarà valida anche per le candidature delle altre liste, passiamo a vedere gli stracci che volano in casa PD.
Per chi arriva in vita a questo punto della newsletter, ora è il momento dei popcorn.
Partiamo da un presupposto: alcune candidature non hanno alcun senso, altre vi faranno googlare il nome del candidato per capire chi è, che fa, perché è in lista.
La decisione finale della direzione PD è passata con solamente 5 astensioni e 3 voti contrari, ma i retroscena raccontano che l’intera Base Riformista (ovvero una delle correnti di ex-renziani, guidata dal ministro della difesa Lorenzo Guerini e dall’ex fedelissimo del leader di Italia Viva, Luca Lotti – e composta, tra gli altri, dall’ex capogruppo al senato Andrea Marcucci e dall’ex segretario ad interim Maurizio Martina) non si sia proprio presentata al momento del voto.
Visto che ci siamo, introduciamo un concetto fondamentale per capire l’algoritmo degli stracci volanti: la corrente.
Leader di corrente del Partito Democratico quando è il momento di parlare di liste.
Il PD è (teoricamente) erede di due partiti di massa, Democrazia Cristiana e Partito Comunista Italiano, caratterizzati da una rappresentanza molto ampia e dal numero di iscritti e di dirigenti altrettanto imponente. Tali dimensioni e l’impossibilità di ricondurre tutto a un uomo solo al comando, come è stato per altri partiti di governo nel corso della storia repubblicana (i socialisti di Bettino Craxi o Forza Italia di Silvio Berlusconi) portavano a una varietà di vedute, visioni, interpretazioni ideologiche differenti. E ciò si tradusse in un sistema piuttosto articolato di correnti, ovvero gruppi interni con leadership consolidate.
Oggi, per quanto nel Partito Democratico coesistano visioni differenti del mondo, è piuttosto chiaro che la divisione interna non è tra “comunisti” e “democristiani”.
Oddio, secondo qualcuno stiamo ancora lì.
Il sistema a correnti si è riprodotto all’interno del PD, ed è molto forte. E anche quando può sembrare che la leadership del partito sia forte e abbia unito tutta la base di iscritti e i dirigenti dietro di sé… sarebbe da illusi pensare che regni la pace.
Esempi pratici: la lunga segreteria di Matteo Renzi è stata forte e la quasi totalità del partito lo seguiva, e gli confermava la fiducia votando riforma dietro riforma, anche quando si trattava di leggi controverse. Dopo la sconfitta al referendum costituzionale del 4 dicembre 2016, la leadership è stata messa in discussione e c’è stata una famosa scissione. Non era la prima, né la seconda, ma senz’altro la più eclatante. Questo nonostante avesse il sostegno imperituro di un’importante corrente della sinistra del partito, i Giovani Turchi guidati da Matteo Orfini.
Nicola Zingaretti aveva compattato gran parte degli iscritti, ma era fortemente osteggiato dall’interno (anche dalla stessa corrente di sinistra di cui sopra). E quando si è dimesso, a marzo dello scorso anno, si è un po’ sfogato.
Ecco, Enrico Letta sembrava finalmente aver messo pace all’interno del PD. E invece…
E invece quando si è trattato di confrontarsi con un parlamento molto ridimensionato dal taglio dei parlamentari, e soprattutto pronto a una batosta storica, ci si è trovati nella condizione di non poter dare i resti a tutti.
Chiaramente, le correnti sono importanti, e in quelle che dal 2019 sono in minoranza (Base Riformista e Giovani Turchi) ci sono esclusi eccellenti:
• Luca Lotti, ex ministro dello Sport di Base Riformista, non sarà candidato nella sua Firenze.
• Giuditta Pini, storica esponente modenese dei Giovani Turchi e deputata dal 2013, è un’esclusa che ha fatto molto, molto rumore per l’ottimo rapporto mantenuto con la società civile grazie alle sue battaglie.
Piccolo, piccolo inciso: nel 2015 Matteo Orfini è stato tra i principali protagonisti, nel PD di cui allora era presidente, della sfiducia di Ignazio Marino, sindaco di Roma dimissionario perché cacciato dal suo stesso partito. Oggi, la sua corrente ha preso un ceffone non indifferente con l’esclusione della sua esponente più popolare. Giusto per rendervi un’idea di quanto sia beffarda la storia.
Quindi, se quattro anni fa le candidature del PD erano state decise praticamente solo dalla maggioranza renziana, oggi in quel campo la situazione non è ottima.
Al di là delle esclusioni tout court, il Partito Democratico ha preso delle decisioni, diciamo, particolari anche in altri contesti.
Monica Cirinnà è ufficialmente candidata nel quarto collegio uninominale di Roma al Senato, ma terrà una conferenza stampa alle 15 per rinunciare alla candidatura. Ritiene sicura la sconfitta: «Mi hanno proposto un collegio elettorale perdente in due sondaggi, sono territori inidonei ai miei temi e con un forte radicamento della destra».
La stessa decisione è stata presa da Stefano Ceccanti, costituzionalista che sarebbe candidato in Toscana al quarto posto nelle liste proporzionali, il che gli renderebbe impossibile l’elezione.
Paolo Ciani, esponente di Demos - Democrazia Solidale (partito legato alla comunità di Sant’Egidio) e già consigliere regionale, attualmente consigliere comunale ed ex candidato alle primarie del centrosinistra nella capitale, sarà candidato nel blindatissimo primo collegio di Roma alla Camera. È una scelta quantomeno coraggiosa, visto che Demos è uno degli alleati più piccoli del PD, nonostante il suo forte radicamento a Roma.
Andrea Crisanti è la candidatura che nessuno si aspettava: epidemiologo diventato noto nel corso della pandemia, sarà capolista al proporzionale per il voto in Europa.
Candidature già note: Letta sarà capolista in due collegi, Lombardia e Veneto, mentre Carlo Cottarelli (della cui candidatura vi parlavamo qui) sarà candidato nel collegio uninominale per il Senato a Milano.
Le prime parole del ministro della Cultura, del Sole e del Mare.
Candidatura che non capirete: Pierferdinando Casini era stato eletto nel collegio uninominale per il senato a Bologna nel 2018. Sarà ricandidato nel capoluogo emiliano, e godrà quindi di un seggio in Parlamento per l’undicesima legislatura consecutiva.
In alto, da sinistra: Palmiro Togliatti, segretario del PCI dal 1938 al 1964; Antonio Gramsci, fondatore del Partito Comunista. In basso, da sinistra: Giuseppe Di Vittorio, segretario generale della CGIL dal 1944 al 1957; Pierferdinando Casini, presidente della Camera durante i governi Berlusconi II e III dal 2001 al 2006; Giacomo Matteotti, deputato socialista del Regno d’Italia dal 1919 al 1924, assassinato per ordine di Mussolini il 10 giugno 1924.
Ci eravamo scordati quanto facesse ridere questa foto.
Per oggi basta così. Dopo aver scritto questa newsletter ci servirebbe un altro giorno di pausa, ma non ce lo concederemo.
A domani!