Ciao!
Siamo Pietro e Simone,
e siamo di nuovo qui.
Memiamoci su.
Avete ragione, è ormai da diversi numeri di questa newsletter che continuiamo a prolungare un addio che, alla fine, non si concretizza mai. Vorremmo dire che è la paura di abbandonarvi a spingerci a continuare a scrivere, e in parte è vero; ma il motivo è soprattutto che le tempistiche non dipendono da noi. Quindi, nel frattempo, continuiamo a fare ciò che sappiamo fare meglio.
In ogni caso, stavolta dovremmo esserci. La prima puntata dovrà essere consegnata tra il 17 e il 22 luglio, quindi al 99% venerdì 21 luglio riceverete in questa mail il link al podcast - che sarà caricato su tutte le principali piattaforme, per togliervi qualsiasi scusa che vi esoneri dall’ascolto.
Dopo queste necessarie informazioni di servizio, iniziamo.
La scorsa settimana abbiamo inviato la newsletter in orario come non accadeva probabilmente dall’estate ‘22. Una hybris che abbiamo pagato vedendo esplodere un caso, lo stesso giorno, senza alcuna possibilità di intervenire a riguardo.
La nostra pacata reazione ad ogni battutina sarcastica tra Calenda e Renzi:
Della vicenda dell’accusa di violenza sessuale nei confronti di Leonardo Apache La Russa si è parlato in abbondanza, vi si sono articolate intorno polemiche che hanno fatto il giro per poi schiantarsi su loro stesse, e ad una settimana di distanza dai fatti non c’è granché di nuovo da poter dire a riguardo. A meno di non inquadrare questi fatti in una cornice più ampia.
Uno dei motivi per cui non avevamo parlato dell’accusa nei confronti del figlio del presidente del Senato, venerdì scorso, era la nostra volontà di scindere un fatto di cronaca dalla carica politica ricoperta dal padre dell’accusato. Un intento che La Russa senior ha sgretolato in pochi nanosecondi con delle dichiarazioni che non possono che assumere un significato politico se pronunciate da una carica dello Stato di quel livello. Tanto da costringere persino la premier Meloni a prendere le distanze da quell’uscita, pur tra mille distinguo.
*inserire frase che lo renda un meme di Osho*
Ecco, questa cosa di dover mettere una pezza alle innumerevoli uscite a vuoto dei propri ministri sta diventando un problema più grande del previsto per Giorgia Meloni.
Nella stessa settimana ha fatto molto rumore anche la dichiarazione del ministro dello Sport Andrea Abodi sul trasferimento di Jakub Jankto al Cagliari: lo scorso febbraio Jankto aveva pubblicamente annunciato di essere omosessuale, e il suo ritorno in Italia (dove aveva già giocato con Udinese e Sampdoria) lo renderà a tutti gli effetti il primo calciatore della Serie A dichiaratamente gay.
Abodi non ha avuto solo la geniale idea di commentare questo avvenimento, ma di farlo con parole assolutamente fuori dal mondo, parlando dell’essere omosessuali come di “scelte individuali da rispettare” e aggiungendo, come ciliegina, di “non amare le ostentazioni”.
La rinomata sobrietà dei conservatori italiani.
E anche se è più ascrivibile all’imbarazzo che all’inciampo politico, vale la pena menzionare anche la gaffe del ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano, che nella serata finale del premio Strega ha promesso che approfondirà le storie dei libri finalisti. Peccato che, dato il suo incarico, Sangiuliano abbia votato uno di quei cinque libri. Sulla base di cosa, non è dato sapere.
Se consideriamo anche le vicende che hanno coinvolto Daniela Santanché, e ministri che solo per caso si trovano fuori dalle polemiche di questa settimana come Roccella o Valditara - di cui abbiamo lungamente trattato su questi schermi - per Meloni i fronti aperti iniziano ad essere troppi per poterli gestire.
Abbastanza, in ogni caso, da rischiare di mandare a monte quella ”operazione credibilità”, perseguita dalla leader di Fratelli d’Italia già dall’ultima campagna elettorale, volta ad accreditarsi come un serio interlocutore sul piano nazionale ed internazionale. Ma non è affatto detto che tutti questi inciampi comunicativi non siano lì per nascondere problemi ben più seri.
Nella settimana in cui Meloni è a Vilnius per il vertice NATO più importante del decennio - in occasione della quale la presidente del Consiglio sta tenendo diversi bilaterali, tra cui quello con il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan - i problemi sono tutt’altro che finiti sul fronte europeo di cui parlavamo un paio di settimane fa.
I ritardi italiani sul Piano nazionale di ripresa e resilienza sono talmente vistosi che il governo, questa settimana, è arrivato a vantarsi di aver messo una toppa ai ritardi sulla quarta rata mentre la terza è ancora in stallo. Ma andiamo con ordine.
“La sua difesa è che ha ucciso lo sceriffo, ma non ha ucciso il vice-sceriffo?”
Entro dicembre del 2022 il governo italiano, per assicurarsi la terza tranche di fondi erogati dall’Unione europea, avrebbe dovuto centrare 55 obiettivi, molti dei quali avevano a che fare con la sanità, con il mondo del lavoro e con la transizione digitale. Tre ambiti in cui l’Italia certo non brilla. 25 di questi obiettivi erano stati conclusi dal governo di Mario Draghi, caduto a luglio e privo di una maggioranza a cui appoggiarsi da luglio fino al 26 ottobre, giorno dell’insediamento del nuovo esecutivo. A Giorgia Meloni, dunque, spettava l’ingrato compito di completare i restanti trenta obiettivi in due mesi.
Avremmo potuto trovare altri esempi di “cose fatte di fretta e presumibilmente malino”, ma oggi il bambino che è in noi prende il sopravvento. 2006 anno di gloria non solo per i Mondiali.
Ma la terza rata ancora non è stata versata all’Italia nonostante la scadenza al 30 aprile, bloccata in un processo di revisione infinito e che forse si è bloccato su qualcosina più di qualche intoppo “formale”. Sia Meloni sia il ministro per gli Affari europei, per il Sud e per la Coesione territoriale Raffaele Fitto hanno definito “imminente” l’erogazione di questa tranche.
Per evitare lo stesso problema con la quarta rata, il governo italiano ha chiesto dieci “modifiche” a singoli progetti del PNRR. Chi ci segue dalla scorsa estate ricorderà che la rinegoziazione del Piano per Fratelli d’Italia è un grido di battaglia (pun intended). Dieci progetti “rinegoziati” sono pochini, ma ciò non ha impedito al ministro di intestarsi questa vittoria in una conferenza stampa convocata martedì.
Fitto, come spiega Carlo Canepa su Pagella Politica, incalzato sulle altre difficoltà sul PNRR si è nascosto dietro poco di più di un dito, sostenendo (a ragione) che solo tre Stati membri dell’UE hanno chiesto l’erogazione della terza rata e nessuno ha ancora chiesto l’erogazione della quarta. Allo stesso tempo, però, l’Italia è il Paese a cui spetta la quantità di denaro più ingente ed è l’unico ad aver diviso l’importo (191,5 miliardi di euro) in dieci rate.
Peraltro, la Spagna ha già incassato i 6 miliardi della terza rata.
Tra nove giorni in Spagna si vota. Date le buone chance di andare al governo per Vox, alleato iberico di Fratelli d’Italia, fossimo spagnoli inizieremmo a mettere qualche spiccio da parte.
Ultima notizia-meme prima di salutarci.
Secondo un retroscena di Open, molti esponenti di spicco di Italia Viva starebbero contemplando o sarebbero addirittura in procinto di lasciare il partito fondato nel 2019 da Matteo Renzi. Tra loro nomi eccellenti: le ex ministre Elena Bonetti e Teresa Bellanova, l’economista del partito Luigi Marattin. Ettore Rosato, ex presidente del partito (gli è succeduto... Renzi), intervistato da Fanpage ha voluto smentire le voci su un suo possibile addio.
Tra i motivi del subbuglio tra i renziani, fermi al 3% nei sondaggi dopo la semi-scissione del Terzo Polo, ci sarebbe proprio la troppa “personalizzazione” del soggetto politico.
Matteo Renzi che concentra su di sé tutte le attenzioni e i poteri nel suo partito? Chi l’avrebbe mai detto.
Con questo è tutto.
Noi, comunque vada, ci sentiamo la settimana prossima.
Ciao!
Ho già nostalgia😏 sarò capace con il " nuovo"?Bravi ✊