Ciao!
Siamo Pietro e Simone,
e la politica italiana ogni tanto si risveglia tutta di botto.
Questo invece è solo il risveglio mattutino di Ignazio La Russa.
Andremo lunghini, ve lo anticipiamo. Per una fruizione migliore vi invitiamo quindi, ancor più delle altre volte, a sfruttare i link allegati per approfondire i temi che vi interessano maggiormente.
Piccolo disclaimer, ad esempio: terremo fuori la questione Cospito-Delmastro nonostante le indagini su quest’ultimo. Un po’ perché la polemica non è di primissimo pelo, nonostante nuove importanti. L’unica cosa che ci limiteremo a fare è consigliare questo breve commento del vicedirettore di Repubblica Carlo Bonini.
Iniziamo.
La notizia principale della settimana è stata una non-notizia, nel senso che era ampiamente prevista da chiunque: il centrodestra ha vinto le Regionali.
L’incontenibile entusiasmo del centrodestra alla notizia.
Avrà senso quindi soffermarsi sui dati davvero “innovativi” di questa tornata elettorale. Che sono pochi, e quasi tutti negativi. Yay.
Il primo riguarda gli equilibri interni al centrodestra. I dati dicono che lo sfondamento definitivo di Fratelli d’Italia non c’è stato: il partito di Giorgia Meloni si è confermato prima forza politica in entrambe le regioni al voto, ma mentre nel Lazio l’affermazione è stata netta, in linea con le aspettative (33%), in Lombardia FdI si è “fermata” al 25%, perdendo persino qualche punto percentuale rispetto alle Politiche di settembre a vantaggio della Lega (16%).
Un risultato che potrebbe placare per un po’ i sommovimenti interni alla maggioranza. Ma che potrebbe anche rivelarsi pericoloso per Meloni: “condannata” ad avere un potere locale enorme (il centrodestra ad oggi governa ben 15 regioni) ma costretta ad occuparsi degli affari nazionali e internazionali. Lasciando quindi i territori in mano a “colonnelli” di dubbia affidabilità, come raccontano Davide Maria de Luca e Giulia Merlo per Domani.
Nel centrosinistra, invece, gli equilibri sembrano essere rimasti congelati rispetto al voto di cinque mesi fa.

No, per congelati non intendiamo queste scuse “di magnitudo 8.1 sulla scala Mazzarri” (cit.)
Entrambi i partiti che hanno provato la corsa da soli, ovvero Azione/Italia Viva in Lombardia e il Movimento 5 Stelle nel Lazio, non riescono ad andare oltre il 9/10%, molto sotto i numeri pronosticati alla vigilia. Un dato che l’incredibilmente-ancora-segretario del PD Enrico Letta non ha mancato di sottolineare nella sua analisi della sconfitta.
Poi, ovviamente, per ogni disamina corretta della situazione, il Partito Democratico non può fare a meno di uscirsene con qualche errore incomprensibile: e quindi, ecco puntuale Letta dichiarare al New York Times che Meloni si sta comportando “meglio di quanto ci aspettassimo”, supportato da Bonaccini che aggiunge “non è una fascista, è una persona certamente capace”.
Predappio dreaming.
Ma il dato davvero preoccupante di queste Regionali è senza dubbio l’astensionismo. Circa 6 aventi diritto su 10 sono rimasti a casa (37% di affluenza nel Lazio, 42% in Lombardia), tanto da rendere queste elezioni rispettivamente la prima e la terza tornata regionale con il più alto astensionismo di sempre. Un dato ancora più preoccupante se si pensa che, proprio per favorire l’affluenza, l’election day di domenica era stato esteso anche alla mattinata di lunedì.
Sulle ragioni dell’astensionismo si sono dette e scritte tantissime cose: si è parlato del peso di una contesa dai risultati già scritti, così come delle difficoltà di tantissimi fuorisede per cui esprimere il proprio diritto di voto si trasforma in un percorso ad ostacoli. Tutte riflessioni corrette e che contribuiscono a costruire un quadro generale, a cui bisogna aggiungere, tuttavia, la sensazione diffusa che alcune tornate elettorali siano meno “decisive” di altre perché meno impattanti sulla vita delle persone: come dimostra la scarsa affluenza ad elezioni regionali ed europee comparata con quella delle politiche.
Una sensazione per nulla suffragata dai fatti: le regioni, ad esempio, esercitano competenze su materie fondamentali come sanità, istruzione e ambiente, solo per citarne alcune. Eppure, è su questa percezione che è necessario lavorare per ricostruire un’architettura che sia insieme funzionale e rappresentativa. Lasciando perdere inutili fughe in avanti.
Ma come vi raccontavamo settimana scorsa, la competizione che ha appassionato di più gli italiani lo scorso weekend non è stata la tornata elettorale, bensì Sanremo. Che però ha condiviso con il voto in Lazio e Lombardia un esito già scritto in partenza.
Sul palco dell’Ariston però, come ormai da tradizione, c’è stato spazio anche per la polemica politica. Portata avanti da un uomo che rappresenta la prova vivente che i 15 minuti di notorietà di warholiana memoria possono trasformarsi in un loop di ricerca spasmodica dei riflettori senza fine.
A sua discolpa: c’è sempre, sempre, sempre qualcuno che prova a superarlo.
Più o meno tutti noi abbiamo ancora negli occhi le performance di Fedez all’Ariston, ma se le sue gesta trovano spazio in questa newsletter è solo perché mettono in luce un tema più ampio e di cui si dovrà parlare nei prossimi mesi.
Dopo le polemiche contro il governo sollevate dal marito di Chiara Ferragni - che strana sensazione si prova ad identificare per una volta un uomo come “il marito di” e non viceversa? - nei corridoi di Palazzo Chigi l’irritazione sembra aver trovato uno sbocco nella volontà di operare un cambio ai vertici Rai alla prima occasione possibile, verosimilmente alla presentazione del nuovo piano industriale tra marzo e aprile.
Ma la partita della Rai potrebbe rappresentare il fumo necessario a mascherare una spartizione ben più complessa. In primavera, infatti, Meloni dovrà indicare i nomi per diverse partecipate statali i cui CdA sono in scadenza: tra cui alcuni veri e propri colossi come Eni, Enel, Poste e Leonardo. Convogliare le polemiche su un’operazione più apertamente politica, come quella della Rai, farebbe passare in secondo piano nomine più sottili ma decisamente più pesanti.
Chi l’avrebbe detto che avremmo parlato di “Giorgia legalizzala” e dei Consigli d’Amministrazione più importanti d’Italia nello stesso paragrafo.
Vi ricordate il nostro pagellone di fine anno?
Sì, quello in cui diamo 10 a Berlusconi. Ci sarà un motivo.
Posso baciare in bocca mio fratello, lo amo davvero
Il Cavaliere continua a essere il protagonista politico di una stagione in cui c’entra come il caprino con la peperonata. Come spesso è accaduto nel corso degli ultimi sei mesi, quando Licia Ronzulli si sbaglia a dargli le pasticchette e lo lascia in balìa della stampa, Berlusconi se ne esce con cose poco simpatiche sul presidente ucraino Volodymyr Zelensky. A questo giro, però, non ha attaccato solo il governo ucraino ma anche quello italiano che il suo partito sostiene, dichiarando di non essere d’accordo sulla linea in politica estera (in mano al numero due del suo stesso partito, Antonio Tajani). Ormai è diventato una sorta di rito: Fratelli d’Italia si dissocia, Tajani si dissocia, la Lega sta zitta e tira un sospiro di sollievo perché non sono loro i putinisti di giornata.
Gratitudine.
Ma dichiarazioni del genere non sono solo un sintomo della lucidità tentennante di Berlusconi. Anche altri esponenti di Forza Italia, come per esempio la presidente della Commissione Esteri Stefania Craxi (sì, figlia di Bettino), non sempre sono incrollabili sostenitori di Zelensky.
Fa sempre comodo, in certi casi, ricordare che il compianto ex ministro degli Esteri forzista Franco Frattini si espresse così sull’invasione della Georgia nel 2008: «Non possiamo creare una coalizione anti-russa in Europa, e su questo punto siamo vicini alle posizioni di Putin». Insomma, anche i meno scenografici esponenti di Forza Italia sono cresciuti col mito dell’alleanza tra Silvio Berlusconi e Vladimir Putin. Forse è addirittura più difficile per loro che per i leghisti cambiare linea a riguardo.
Questo ennesimo scivolone non ha fatto per niente piacere al partito europeo di cui fa parte Forza Italia, il Partito Popolare Europeo. Soprattutto non devono aver fatto felice il presidente dei Popolari, Manfred Weber, che aveva difeso Forza Italia come “baluardo europeista” nella maggioranza che sostiene l’esecutivo di Giorgia Meloni. Anche se le critiche sono rivolte soprattutto a Berlusconi, in questo scontro ci è andato di mezzo tutto il partito. Il summit del PPE previsto per giugno a Napoli, grande occasione per Forza Italia di raccogliere tutto il supporto (avrebbe dovuto presenziare persino Ursula von der Leyen), è stato annullato oggi pomeriggio. Weber ha rinnovato il sostegno a “Forza Italia e Antonio Tajani”, raddoppiando lo schiaffo a Berlusconi.
(Ah, a proposito del Caimano: è stato assolto nel processo Ruby-ter in cui era accusato di aver corrotto testimoni perché il fatto non sussiste. Ora di processi a carico ne mancano solo quattro.)
End of an era.
La Camera ha approvato con una solida maggioranza il decreto ONG, un attacco frontale all’attività delle navi di volontari che operano nel Mar Mediterraneo salvando le vite di chi tenta di raggiungere l’Italia. Più volte ci siamo concentrati, in questa newsletter, sull’atteggiamento del governo Meloni nei confronti dell’immigrazione. Dall’ultima crisi aperta con la Francia ci si sarebbe aspettati che qualcosa sarebbe cambiato. E invece.
Con questo decreto si vuole rendere impossibile per le ONG attraccare senza incorrere in sanzioni (le multe previste vanno dai 10mila ai 50mila euro), che scattano con condizioni assurde che trovate qui.
L’Italia è il porto sicuro più vicino alla Libia, e questo non può essere cambiato dal governo Meloni. Come abbiamo ricordato già in passato, l’intero decreto e l’opposizione alle ONG si basano sull’assunto che la loro presenza in mare sia un pull factor, ovvero sia un incentivo a partire dalle coste libiche. Fatto smentito persino da Frontex, ovvero l’agenzia creata dall’UE appositamente per tenere i migranti lontani dai propri confini.
La Guardia costiera italiana sostiene che le navi delle ONG svolgono un lavoro utile.
Comunque, fatta eccezione per novembre, dall’insediamento del governo Meloni gli sbarchi rispetto all’anno precedente sono aumentati ogni mese. Così, tanto per ricordarlo.
È arrivato il momento annuale del Mappazzone, nome che consigliamo caldamente di accostare a “Milleproroghe” quando si parla di questo decreto rituale. Col Milleproroghe il Parlamento ogni anno rinvia scadenze per questioni che richiedono una prolunga per varie necessità, o cose di cui non è riuscito a occuparsi.
Stranamente, ci sono finite in mezzo anche le concessioni ai gestori balneari.
Assolutamente non Giorgia Meloni.
La questione è annosa, e la destra che appoggiava il governo di Mario Draghi (ovvero Lega e Forza Italia) sulla spinta degli alleati di Fratelli d’Italia aveva messo i bastoni tra le ruote all’allora presidente del Consiglio, che intendeva porre un punto di fine alla questione. Oggi la destra è al governo e, per lasciarci andare al puro citazionismo, fa un po’ come cazzo le pare.
Per approfondire la questione lasciamo qui un utile quanto ingenuo articolo di Simone di qualche tempo fa.
Comunque, nel Milleproroghe c’è qualche nota positiva, come la proroga dei tassi agevolati per i giovani che vogliono comprare casa, e qualche altra nota… neutra (?) come la decisione di alzare le pensioni a 72 anni per quei medici di medicina generale o pediatri che vogliano continuare a esercitare. Non è una notizia nuova che la sanità italiana sia sotto organico. Per rimediare a questa mancanza si punta a convincere i più anziani a rimanere anziché, ad esempio, rendere accessibile l’ingresso nel Sistema Sanitario Nazionale a medici di origine non italiana: oltre 77mila persone tra medici, infermieri, fisioterapisti, psicologi e altri. L’80% di questi lavora nel settore privato.
In ogni caso, qui trovate un riepilogo a cura di Giovanni Rodriquez sulle misure previste in ambito sanità.
Per oggi chiudiamo qui, anche perché vi immaginiamo a fine lettura con un accenno di crisi da iperstimolazione. O almeno, è come ci sentiamo noi.
Noi ci sentiamo di nuovo settimana prossima per parlare di uno dei nostri cavalli di battaglia: le primarie del PD, in programma domenica 26 febbraio.
Non vedete l’ora, vero?
Nell’attesa, potete sempre consolarvi con le dichiarazioni di uno degli esponenti Dem più innegabilmente divertenti.
A venerdì, ciao!