Manovre sterili
Il governo vara una legge di bilancio senza soldi e senza coraggio. Intanto Renzi e Calenda divorziano (definitivamente?).
Ciao!
Siamo Pietro e Simone,
e in questa puntata non parleremo dell’affaire Giambruno.
Solo un memino, dai.
Dalla prospettiva che ci interessa, quella dell’analisi della politica italiana, l’aspetto che ci interessa sottolineare è che in diversi modi, prima evitando le domande dei giornalisti in conferenza stampa, e poi sviando totalmente l’attenzione dei media portandola sul gossip, la premier Meloni abbia in sostanza evitato qualsiasi discussione pubblica relativa alla manovra economica: ovvero quello che dovrebbe essere il momento chiave per capire cosa è stato fatto finora e cosa si programma di fare in futuro per la programmazione economica di un paese.
E visto che finora non l’ha fatto nessuno, è un compito di cui ci prendiamo volentieri la responsabilità. Tanto la salute ce la siamo già rovinata la scorsa estate.
Come al solito, trovate maggiori approfondimenti nella puntata del podcast, uscita ieri:
Detto questo, iniziamo.
Lunedì mattina, Giorgia Meloni ha presentato in conferenza stampa la nuova legge di bilancio, definendola “una finanziaria seria e realistica”. La manovra ha un valore di circa 24 miliardi, di cui 16 sono sostanzialmente di deficit extra rispetto a quanto previsto, grazie allo scostamento di bilancio approvato una decina di giorni fa dal Parlamento.
La gran parte dei fondi di questa manovra, circa 10 miliardi su 24, sono indirizzati al taglio del cuneo fiscale per i lavoratori dipendenti con redditi fino a 35 mila euro, una misura però non strutturale ma valida, per ora, solo per il 2024. Per il resto, ci sono tre miliardi in più per la sanità, che però bastano a malapena a sterilizzare la crescita dell’inflazione: il rapporto tra spesa sanitaria e Pil, infatti, è comunque destinato a calare dal 6,6% al 6,1% entro il 2026, secondo la Nadef. C’è poi il taglio di uno scaglione Irpef (anche questo solo sul 2024), alcune misure per “contrastare la denatalità”, e persino 700 milioni per avviare il progetto del Ponte sullo stretto (che nei prossimi due anni, in qualche modo, dovranno diventare 12 miliardi: in bocca al lupo).
Siamo veramente ad un passo dal livello “seduta spiritica pur di trovare i fondi per il Ponte”.
Una manovra che, in sostanza, finisce per apparire un mero esercizio di contabilità che sposta qualche spicciolo da una voce di bilancio all’altra, peraltro quasi mai in maniera strutturale e a lungo termine, e cerca di venderlo come una rivoluzione.
Meloni forse ha ragione a venderla come una manovra “seria”: rispetto ai tempi del governo gialloverde, ad esempio, sembra finita l’era dello scontro frontale con Bruxelles sui margini di deficit; e questo esecutivo di destra, proprio perché consapevole di avere tutti gli occhi addosso, sta provando a rassicurare l’Europa e i mercati almeno sulle questioni finanziarie.
Ma quello che manca a questa legge di bilancio è il coraggio, una visione di Paese da proporre ai cittadini. E il rigore senza visione, e quindi fine a se stesso, diventa solo austerità. Una parola che non farà particolarmente piacere a Meloni.
Uno di quelli secondo cui la goccia riesce EFFETTIVAMENTE a scavare la roccia.
Il vero motivo per cui non parliamo della rottura tra Giorgia Meloni e Andrea Giambruno è che per questa settimana abbiamo già un divorzio da raccontare, uno che ci sta particolarmente a cuore.
Buone Intenzioni ultimo baluardo del romanticismo vecchia maniera.
Sempre nella serata di lunedì, la riunione dei gruppi parlamentari di Italia Viva faceva venir fuori la conclusione che il rapporto con Azione era un bivio: se non si fosse deciso per la lista unica alle prossime Europee, allora sarebbero saltati anche i gruppi parlamentari unificati tra i due partiti. Nemmeno ventiquattr’ore dopo, il banco è saltato.
Negli ultimi giorni il senatore di IV Enrico Borghi ha chiesto al presidente del Senato La Russa di modificare il nome del gruppo parlamentare del terzo polo in “Italia Viva - Il Centro - Renew Europe”, proprio mentre i deputati renziani chiedevano al presidente della Camera Fontana di formare un nuovo gruppo parlamentare con lo stesso nome.
La rottura definitiva tra i due partiti comporta, oltre a una quantità di meme non indifferente, anche una serie di conseguenze più serie. Innanzitutto, di ordine economico.
No, non parliamo di questo.
La questione è viva soprattutto al Senato, dove Azione non avrebbe i numeri per formare un gruppo autonomo e perderebbe quindi gran parte dei finanziamenti destinati ai gruppi parlamentari, che possono arrivare fino a 400mila euro. Ma si tratta anche di un tema politico e soprattutto comunicativo, perché la separazione dei due gruppi vorrebbe dire anche uno spazio mediatico limitato riservato agli esponenti dei due partiti.
Sembra difficile, insomma, trovare dei lati positivi in tutto questo, anche per i due protagonisti. Ma che il presunto matrimonio tra Renzi e Calenda fosse in realtà la cronaca di un disastro annunciato, ci era chiaro già dall’agosto 2022. E noi, di politica italiana, non ne capiamo assolutamente nulla.
“Si dicono non rimaniamo estranei o nemici
Ma non ci riescono quasi mai”
Per oggi è tutto, noi ci sentiamo la prossima settimana. E anche se è vero che fa più rumore un divorzio di un matrimonio, speriamo di avere qualcosa di migliore da raccontarvi.
Ciao!