Ciao!
Siamo Pietro e Simone,
e certi giorni scrivere questa newsletter è più divertente di altri.

E no, non per questo motivo. Che comunque.
Ieri come sapete si è tenuto il primo, e a quanto pare ultimo, dibattito tra i leader dei due partiti principali e delle rispettive coalizioni: Giorgia Meloni ed Enrico Letta.
Assolutamente non noi due durante il dibattito.
L’evento è stato organizzato dal Corriere della Sera e moderato dal suo direttore, Luciano Fontana. Motivo per cui, mentre il Corriere vi dedica cinque pagine, sugli altri giornali di oggi lo spazio dedicato alle analisi sul dibattito è decisamente esiguo.
Questa, ad esempio, è l’unica copertura dedicata da Repubblica all’evento.
Visto che non siamo Charlie, con le riflessioni metagiornalistiche ci fermiamo qui, e ognuno ne tragga le conclusioni che vuole.
Senza rubare ulteriore spazio ai meme su Calenda, iniziamo.
“Abbiamo parlato novanta minuti, più o meno come una partita di calcio”, afferma alla fine del dibattito Letta. Se già normalmente la tentazione della metafora calcistica per un confronto a due è forte, questa chiosa finale farebbe capitolare chiunque.
Eppure, di agonistico questo confronto ha avuto ben poco. Per restare nell’ambito, nel bellissimo libro calcistico di Nick Hornby il leader del PD non troverebbe alcuno spazio se non nei panni di Colin Firth: che accettando la parte del protagonista nell’adattamento cinematografico, ammise candidamente di non capirne un’acca di pallone.
E anche l’espressione è sveglia come lo era quella di Letta ieri.
Meloni e Letta non si attaccano troppo frontalmente, anche se le regole del confronto di fatto cadono dopo un’ora di dibattito: i due iniziano a sforare perché il timer di fronte a loro, che il pubblico non vede, è scomparso, ed entrambi si arrogano il diritto a una replica aggiuntiva rispetto alle tre concordate.
Tra i due leader, i ruoli sembrano quasi invertiti: Meloni, nonostante il vantaggio nei sondaggi, usa per prima tutte e tre le repliche concesse dalle regole d’ingaggio per rispondere all’avversario, e lo attacca anche su terreni che normalmente gli sarebbero più favorevoli.
Come sulle alleanze europee: Letta attacca Meloni sui rapporti con l’Ungheria e la Polonia solo in risposta alle stoccate della leader di FdI sui socialisti tedeschi (“ostacolano il price cap perché hanno contratti vantaggiosi per le forniture di gas russo”), quelli portoghesi (“Gentiloni si è complimentato con loro per le modifiche fatte al Next Generation EU, perché noi non possiamo chidere di modificarlo?”) e sulle dichiarazioni islamofobe dell’ex primo ministro socialdemocratico slovacco Robert Fico.
No, non lui.
Letta invece è conciliante, a tratti remissivo. Si compiace, alla fine, del “fair play” tenuto durante il confronto. Sottolinea spessissimo, in modo quasi meccanico, che dal confronto vengono fuori “due visioni profondamente diverse”: un tentativo di occupare tutto il campo politico e delegittimare gli attori esterni al duo, Movimento 5 Stelle e Terzo polo. Insomma, sembra parlare più all’esterno dello studio che all’interno, lì dove riconosce i concorrenti più diretti.
Sui temi nello specifico, il dibattito si apre sulla politica estera, e su una sostanziale concordanza tra i due riguardo alla posizione sull’Ucraina.
Le prime schermaglie arrivano su Europa e PNRR: mentre Meloni difende il principio di sussidiarietà e chiede un fondo per compensare i paesi più esposti alle sanzioni, Letta attacca il diritto di veto che paralizza il processo decisionale e le vicinanze di Salvini e Berlusconi alla Russia. Meloni risponde criticando a sua volta le incongruenze interne alla coalizione (“a pagina 42 del programma di Sinistra Italiana c’è scritto: ‘Bisogna fermare subito l’invio delle armi’”) e respingendo l’idea per cui l’Italia dimostrerebbe inaffidabilità se chiedesse di rinegoziare parti del PNRR.
Sulle questioni di bilancio Meloni assume un atteggiamento estremamente prudente, afferma che nella situazione economica in cui ci troviamo bisogna fare attenzione alle coperture ma dice il falso quando afferma che nel programma del centrodestra “non ci sono condoni”. Sul lavoro invece Letta propone salario minimo e il mantenimento del reddito di cittadinanza rivedendo la parte sulle politiche attive per il lavoro, mentre Meloni critica entrambi gli strumenti e mette l’accento esclusivamente sull’aiuto alle imprese, sostiene “una misura che sostenga chi è davvero impossibilitato a lavorare” e una deduzione al 120% per le nuove assunzioni a tempo indeterminato. Un particolare interessante: quando interviene sul salario minimo, si dice contraria sottolineando che a tutelare i salari bastino i contratti nazionali. Chi ha letto questo approfondimento si ricorderà che i contratti collettivi nazionali sono moltissimi (ne esistono 1011), e che la stragrande maggioranza sono “pirata”, non rappresentativi e svantaggiosi per chi lavora.
Ultime battute: il direttore Fontana, arbitro abbastanza assente della contesa, ignora il tema dell’ambiente, e costringe Letta a chiamarlo in causa accusando Meloni di aver sempre votato contro i provvedimenti per il clima in Europa. accusando Meloni di essere “negazionista”. Meloni risponde a tono, sostenendo che l’accusa di Letta farebbe ridere e forgiando il capolavoro “non c’è nessuno che ami l’ambiente più di un conservatore”.
Nel 2013 il governo conservatore del Regno Unito dimostrava tutto il suo amore per l’ambiente parlando di sbarazzarsi della “merda verde”. Fino alla Brexit sono stati i più importanti alleati europei di Fratelli d’Italia.
Riguardo al presidenzialismo, invece, volano gli stracci: per Letta l’ultimo governo è “la dimostrazione che il sistema attuale funziona”, mentre Meloni gli fa notare che Draghi ha fatto spesso ricorso allo strumento dei decreti, coinvolgendo in maniera solo minoritaria il Parlamento. Afferma, inoltre, che la svolta presidenzialista era alla base della proposta di riforma promossa dalla bicamerale di Massimo D’Alema, e chiede: “anche D’Alema quindi voleva i pieni poteri?”.
«Io sono il Senato».
Sull’immigrazione, Letta attacca ancora Meloni per le sue alleanze europee, che impediscono la revisione dei Trattati di Dublino. Meloni critica Letta perché il PD e le politiche degli ultimi governi (compreso l’ultimo decreto Flussi) avrebbero aiutato gli ingressi illegali a scapito di quelli legali (qui ci sarebbe moltissimo di cui parlare, soprattutto a proposito della legge Bossi-Fini, ma sorvoliamo).
Meloni chiede inoltre una missione/trattato UE con i paesi nordafricani e specialmente con la Libia per bloccare i flussi, proposta che era del PD. A nessuna delle tre persone in studio viene in mente di citare quanto dichiarato dall’ONU sul trattamento che le autorità e para-autorità libiche riservano a chi tenta di partire.
È incredibilmente Letta il primo a pronunciare le parole “blocco navale”, ovviamente per rinfacciare all’avversaria di aver cambiato idea sul tema moderando le proprie posizioni (o nascondendole).
Magari Letta avrebbe apprezzato questa risposta.
Meloni non nasconde invece le sue posizioni più conservatrici su diritti e concezione dello Stato: difende il motto “Dio, patria e famiglia” che, sottolinea, è “un motto mazziniano”, rimarcando la propria passione per parole d’ordine che hanno tra i 100 e i 200 anni di età. Rincara, poi, dichiarando che “è il cristianesimo ad averci insegnato la laicità dello Stato” (come prego?). Ma è sulle adozioni per le coppie omosessuali che i due mettono in scena il siparietto più interessante: Meloni sostiene di essere contraria perché “ai bambini orfani che hanno già sofferto bisogna garantire il massimo”, Letta si lascia sfuggire l’opportunità di chiedere per quale motivo le famiglie omosessuali siano meno del massimo e risponde: “per crescere un figlio serve l’amore”.
E qui Meloni, come in una meravigliosa ringkomposition, fa un’affermazione che potrebbe tranquillamente diventare uno slogan del PD: “Tu vuoi normare l’amore, lo Stato non norma l’amore”.
Per normare l’amore, Giorgia Meloni chiederà aiuto a una figura molto più conciliante.
Mentre Meloni sta parlando di salario minimo e politiche per le assunzioni, si sente un telefono squillare. Una sveglia. La leader di Fratelli d’Italia chiede scusa e prosegue il suo discorso. Sono le 19.
Alla stessa ora, Carlo Calenda inizia il suo monologo di risposta.
La scena era più o meno questa.
Calenda si presenta alle 19.15 ed espone le regole: uno schermo trasmette le domande rivolte da Fontana ai due candidati principali, e il segretario di Azione - con un’ora di ritardo e tutto il tempo di preparare la propria risposta - cercherà così di inserirsi in questo duello a due.
Ma persino i commenti del video sembrano disinteressarsi a ciò che ha da dire Carlo Calenda quando nella chat compare la notifica che mostra come Giorgia Meloni stia guardando il video.


Qui testimonianza.
Siamo persone romantiche, e ci piace pensare che Giorgia Meloni seguisse la replica di Calenda nelle pause del suo scontro con Letta. Ovviamente non è così, e probabilmente si tratta o di un tentativo di togliere legittimità e interesse alla diretta di Calenda (non che prima ne avesse tantissima) o ancora più semplicemente di un errore di un social media manager nell’accedere con il profilo sbagliato.
Per sapere se questa diventerà la metafora perfetta per la campagna del Terzo polo, schiacciata e oscurata da quelli che Calenda, nella sua replica, chiama “Sandra e Raimondo”, basterà aspettare il 25 settembre.
Giuriamo che questa è l’ultima.
Ci scusiamo per il ritardo del numero di oggi, ma le cose da scrivere erano tante e anche le battute possibili. La qualità ha bisogno di più di 90 minuti.
A domani!
Abbracci e congratulazioni!