Non dirmi una parola che non sia d'amore
Film già visti: governo in difficoltà si rifà sulla comunità LGBT+.
Ciao!
Siamo Pietro e Simone,
e questa settimana è stata segnata da un grande classico: il governo che in momenti difficili scalda i motori e attacca minoranze. Sì, parliamo di nuovo della comunità LGBT+. Ci arriviamo tra un attimo.
Prima, piccolo spazio pubblicitario: siamo ospiti per una trilogia di episodi dai nostri amicissimi di Carenza di Basso per il loro podcast, Pogo in Cameretta. Loro sanno molto di musica e poco di politica, noi sappiamo poco di entrambe. Il primo episodio è praticamente true crime: la sparizione (o quasi) della musica politica in Italia.
L’argomento è serio, noi no, quindi ovviamente come ogni podcast con quattro uomini bianchi cis-etero che vedono arrivare la fine dei vent’anni (pun intended) siamo noi che diciamo la nostra opinione su tutto e ci divertiamo da soli sperando che ciò faccia ridere anche gli altri.
Detto ciò, la settimana è stata più densa del previsto. Ogni argomento apre a questioni potenzialmente enormi, quindi iniziamo.
Il momento di crisi, per il governo, è articolato su due fronti.
Il primo è il PNRR. Vi avevamo già raccontato dei guai che il governo sta passando da mesi per l’incapacità cronica di spendere i soldi del NextGenerationEU. L’ultimo capitolo di questa telenovela tragica è seguito all’intervento della Corte dei Conti, volto a ricordare il proprio ruolo di controllo sui progetti del Recovery Plan. La risposta del governo è stata molto semplice: ha approvato un decreto per limitare questo ruolo in modo da avere le mani più libere sulla spesa. Oltre alle implicazioni in termini di trasparenza (con meno controlli intensifica il rischio di infiltrazioni criminose, per dirne una), ovviamente il problema a valle rimane: non si ha idea di come far spendere questi soldi agli enti di prossimità, dalle Regioni in giù. Altri enti che, peraltro, possono avanzare questioni sulla spesa dei soldi.
Un problema aggiuntivo di tutto ciò è che questo non nasceva come decreto ad hoc, ma come emendamento al decreto sulla Pubblica Amministrazione. Progetto di legge con cui si puntava, tra le altre cose, ad assumere dei lavoratori precari del settore (in maggioranza, peraltro, nelle forze dell’ordine). Per approvare il decreto in fretta e furia con questo emendamento, questo proposito è stato rimandato.
Il mindset di un mf che ha appena risparmiato soldi dalla busta paga di 3000 persone per avere altri soldi che non sa come spendere.
Il secondo problema grosso con cui il governo si sta confrontando è, ovviamente, la gestione dei danni causati dalla catastrofe climatica in Emilia-Romagna. Innanzitutto, i 2,2 miliardi annunciati con grande soddisfazione il 26 maggio semplicemente non ci sono. Il governo ha tagliato su molte voci di spesa e ha raccolto circa mezzo miliardo in meno di quanto promesso. Questo, principalmente, perché il governo ha serie difficoltà spendere a debito per il resto dell’anno. Una sorta di overshoot day che è scattato nel momento in cui ha investito tutto ciò che poteva nel taglio temporaneo del cuneo fiscale, che al momento il governo sta “lavorando per confermare”.
E, visto che 900 milioni sono stanziati per ammortizzatori sociali e contributi a imprese, al momento per la ricostruzione i soldi sono ancora meno: concretamente, finora, sono stati messi a disposizione solo 245 milioni.
Ma la ricostruzione in Emilia-Romagna si è trasformata immediatamente in uno scontro politico interno alla maggioranza che non ha assolutamente nulla a che vedere con il disastro.
Un vecchio cavallo di battaglia di Walter Memoni che riadattiamo per l’occasione.
Dopo la mancata nomina di Stefano Bonaccini a commissario straordinario, un retroscena di Tommaso Ciriaco e Antonio Fraschilla su Repubblica svela il motivo per cui la carica ancora è scoperta: Matteo Salvini dal ministero delle Infrastrutture vorrebbe guidare la ricostruzione tramite il deputato romagnolo Jacopo Morrone, tagliando fuori Galeazzo Bignami (sì, quello della foto con la svastica al braccio), sostanzialmente il leader di Fratelli d’Italia in Emilia-Romagna e probabile candidato alle prossime elezioni regionali. Giorgia Meloni ha reagito di mettere tutto nelle mani del ministro del Mare Nello Musumeci come coordinatore del tavolo con gli enti locali. Tutto ciò è avvenuto in una riunione in cui i due si sarebbero confrontati con toni che dire passivo-aggressivi è dir poco.
Sì, più o meno come quest’altro scontro tra titani. Ah, comunque #TeamLuis.
Giugno è il pride month, come ben sanno coloro che su Twitter vedono improvvisamente i loghi dei brand tingersi d’arcobaleno (nel caso italiano, anche subito dopo essere stati partner di eventi che lanciano il messaggio opposto).
Quanto meno non dovremo mai vedere arcobalenato questo logo che sembra un fascio littorio in stile anime.
Le manifestazioni del Pride nelle varie città d’Italia sono da sempre oggetto di attacchi dalle destre, che li stigmatizzano come “carnevalate” per sminuirne il valore identitario. Nel corso degli anni contro la comunità LGBT+ non si erano scagliati solo personaggi come Simone Pillon o Lorenzo Fontana, ma anche la stessa Giorgia Meloni. La mancata approvazione del ddl Zan era ancora lontana, ma già si pregustavano i soliti argomenti: «Che bisogno c'è di mancare di rispetto a milioni di fedeli per sostenere le proprie tesi?», scriveva l’allora futura premier in un post del 2021. «E aggiungo: come si concilia la lotta alle discriminazioni, alla violenza e all'odio con i cori di insulti e minacce contro chi non è d'accordo con il ddl Zan? Se sei convinto delle tue idee e delle tue posizioni, non hai bisogno di insultare nessuno». Insomma, la solita avanzatissima ideologia per cui l’identità di genere e l’orientamento sessuale sono un’opinione.
Sembrava strano, quindi, veder rinnovato il patrocinio della Regione Lazio, ormai da tre mesi in mano alla destra, al Pride di Roma. Da una parte il Comune, e il sindaco Roberto Gualtieri in particolare, ha finanziato e appoggiato l’iniziativa. La Regione, invece, si è comportata un po’ come se si fosse scordata di disdire l’abbonamento a un servizio di streaming illegale prima del rinnovo automatico.
Nonostante il Roma Pride non sia esattamente un coacervo di sovversivi, il documento politico non fa certo sconti su questioni su cui il governo Meloni ci è andato giù pesante, come trascrizione all’anagrafe dei figli di coppie omosessuali o la gestazione per altri (GPA, altresì detta poco elegantemente “maternità surrogata”). Una volta accortasi di questo documento con settimane di ritardo e rintuzzata dalle associazioni pro-vita, la destra ha deciso di ritirare infuriata il patrocinio al Roma Pride, pronto a ridarlo a un paio di condizioni: la prima, ritirare il documento in cui si parla così apertamente del diritto alla GPA, battaglia importantissima della destra. La seconda?
Giuriamo che è tutto vero e non un titolo generato dall’intelligenza artificiale. Anche se il prompt “presidente regione lazio dà condizioni per patrocinio roma pride” dubitiamo dia risultati molto diversi.
Il ritiro del patrocinio, di per sé, è una situazione win-win. Da una parte, si dà in pasto ai giornali una storia che non ha nessuna implicazione politica maggiore e che rende fiero il proprio zoccolo duro di elettori intimamente omotransfobici. Dall’altra, ehi, pubblicità gratis all’evento più importante dell’anno per la comunità LGBT+. Ma, soprattutto, spot politico per un partito che per la prima volta nella sua storia ha una segretaria che fa parte di detta comunità. Non è un caso se oggi, giorno prima del Pride, Roberto Gualtieri ha celebrato le prime due trascrizioni all’anagrafe di due figli di una coppia di mamme italo-inglese.
E il Roma Pride è, per fortuna, solo una delle tante manifestazioni in tutta Italia. Sarà un mese strano.
In chiusura, come d’obbligo, un breve spazio dedicato al partito più disfunzionale della storia della Repubblica.
La segretaria del PD Elly Schlein ha operato un ulteriore colpo di mano contro il primo obiettivo della guerra silenziosa alle correnti: Vincenzo De Luca e il figlio Piero. Ulteriore perché, con il commissariamento del partito in Campania due mesi fa, la segretaria aveva già messo in chiaro che non intendeva lasciare intatto alcun feudo territoriale.
Martedì la segretaria ha rimosso Piero De Luca dal ruolo di vicecapogruppo alla Camera, sostituendolo con Paolo Ciani. Quest’ultimo peraltro, pur essendo stato eletto nelle fila del partito come indipendente, non è membro del PD e ha sempre votato contro l’invio di nuove armi all’Ucraina arrivando da Demos, partito cattolico di sinistra e fortemente pacifista.
Don Vincenzo l’ha presa benone.
De Luca jr. ha parlato di “vendetta trasversale” e di voler fare “battaglia nelle sedi di partito”. Partito che, appunto, è stato commissariato ad aprile.
Nel resto del PD, intanto, le correnti non in linea con Schlein si starebbero organizzando per una strenua resistenza interna. I nomi di spicco in questa super-corrente non mancano: l’ex sindaco di Torino Piero Fassino, l’ex ministro della Difesa Lorenzo Guerini, l’ex super-fedelissimo di Matteo Renzi Graziano Delrio. E, ovviamente, il presidente del PD e della Regione Emilia-Romagna Stefano Bonaccini. Che evidentemente, una volta dismessa la divisa della Protezione Civile, non ha molto altro a cui pensare.
Per oggi è abbastanza, noi ci sentiamo venerdì prossimo.
Ciao!
Segue:e Simone😘