Facciamo ponte
Lo strano 25 aprile del governo, la figuraccia sul DEF e altre storie di paura e delirio.
Ciao!
Siamo Pietro e Simone,
e viviamo in un mondo in cui Volodymyr Zelensky e Xi Jinping riescono a parlarsi nonostante la contrarietà dei rispettivi principali alleati, ma la maggioranza non riesce a riunirsi in aula.
Il vicepresidente della Camera Fabio Rampelli che si ritrova frastornato a commentare «Capisco l’euforia dell’opposizione» potrebbe già essere una delle migliori frasi di questa legislatura, impresa non facile.
Il voto di ieri chiude una settimana complicata per Fratelli d’Italia, quella della festa della Liberazione e delle richieste perpetue a Giorgia Meloni di dichiararsi antifascista. Una settimana che è l’equivalente di incontrare cinque nodi di capelli nella stessa passata di pettine.
Andiamo per step, però.
Iniziamo.
Rischiava di essere una giornata noiosetta fino a quando, ieri pomeriggio, un voto che doveva essere una formalità si è tramutato in uno dei momenti più imbarazzanti per la destra da quando è al governo.
Berlusconi aveva già dichiarato la propria antipatia per Zelensky e La Russa aveva già sostenuto che la parità di genere si sarebbe potuta dichiarare ottenuta con l’elezione di una donna brutta e stupida in una posizione di rilievo. Così, solo per ricordare il grado di imbarazzo che l’attuale presidente del Consiglio è abituata ad affrontare.
La Camera era riunita per ratificare il Documento di Economia e Finanza (DEF). I presenti erano 319 su 400. Comprensibilmente molti, tra i banchi dell’opposizione, avevano ritenuto inutile presentarsi per votare. Soprattutto, visto che 105 dei 124 deputati dell’opposizione si sono astenuti dal voto per non intralciare l’approvazione di un documento poco controverso, la cui principale innovazione era l’eliminazione di alcuni punti di cuneo fiscale.
Era tutto pronto per far passare il provvedimento, ma 25 parlamentari della maggioranza erano assenti alla votazione. Tra di loro Umberto Bossi, che per ragioni di salute non è un campione di presenza, e Marta Fascina, compagna di Silvio Berlusconi che non ha lasciato il San Raffaele da quando il Cavaliere è ricoverato.
Quanto era tutto più facile, eh?
La maggioranza quindi, semplicemente, non c’è stata: serviva la maggioranza assoluta della camera (201 voti a favore) e la destra si è fermata a 195. Erano assenti 5 deputati eletti di Fratelli d’Italia, 9 di Forza Italia e 11 della Lega. Al momento una delle ipotesi più accreditate per le assenze non giustificate è il fatto che il voto sia capitato tra il 25 aprile e il primo maggio e che più di qualche deputato abbia deciso di fare un lungo ponte.
Persone cresciute a scuola prima dell’introduzione del registro elettronico saranno piace:
Le reazioni a caldo sono state, prevedibilmente, pessime. Il ministro dell’Economia, il leghista Giancarlo Giorgetti, non è riuscito a trattenere il disprezzo per i deputati della destra: «Non c’è nessun problema politico. Il fatto è che, però, ci sono deputati che non sanno o non si rendono conto».
Giorgia Meloni ieri era a Londra a Downing Street per un incontro con il primo ministro inglese Rishi Sunak, il cui Partito Conservatore britannico è uno storico alleato di Fratelli d’Italia.
E in effetti tendono a pensarla in maniera simile su tante cose.
La presidente del Consiglio è dovuta tornare a Roma per un Consiglio dei ministri convocato in fretta e furia e durato in realtà solo pochi minuti. Non ha voluto infierire pubblicamente, definendo il voto della Camera semplicemente un “brutto scivolone”. Secondo un retroscena, però, Meloni si sarebbe spinta un po’ oltre il commento freddo e distaccato consegnato alla stampa.
Ok, now tell us how you really feel.
È la prima volta che il DEF viene bocciato, e già oggi, dopo pochissimi ritocchi, il documento ha ottenuto l’ok di Camera e Senato: in tempo dunque per il 1° maggio, data da cui dovrà partire il finanziamento per il taglio al cuneo fiscale.
Il mantra ripetuto da tutta la maggioranza però, cioè che il voto “non è un segnale politico”, è vero solo in parte. Il governo, soprattutto con questa opposizione, non sarà mai davvero a rischio a meno di sconvolgimenti interni ai partiti o disaccordi di un certo rilievo, che per ora la maggioranza sembra non avere su nulla. Allo stesso tempo però il voto della Camera di ieri dimostra che, nonostante una maggioranza solida nell’elettorato e un’egemonia politica inscalfibile, la credibilità di questo governo al livello nazionale e internazionale sta in piedi con lo sputo.
Ma la settimana appena trascorsa è stata particolarmente divertente nella politica italiana per molti altri motivi.
Innanzitutto, è stata la settimana della Festa della Liberazione. E come se l’è cavata il primo governo post-fascista della storia repubblicana? In maniera altalenante.
La premier Meloni ha inviato al Corriere della Sera una lunga lettera, pubblicata la mattina del 25 aprile in cui, sostanzialmente, alterna un po’ di autocritica ai soliti tentativi della destra di buttarla in caciara. Affermando, ad esempio, “l’incompatibilità dei partiti che rappresentano la destra in Parlamento con qualsiasi nostalgia del fascismo”; ma anche ritornando alla proposta fatta da Berlusconi nel 2009 di fare del 25 aprile una “Festa della Libertà” contro tutti i totalitarismi.
Virgin “i totalitarismi sono tutti brutti” vs Chad “inondate il servizio pubblico di discorsi sulle foibe”.
Un concetto che il presidente del Senato Ignazio La Russa, nettamente quello con il voto in pagella più basso di questo 25 aprile, ha preso molto sul serio: tanto da aver passato la Festa che commemora la Liberazione dell’Italia dal nazifascismo a Praga, rendendo omaggio a Jan Palach, studente che si diede fuoco per protesta contro il regime comunista nel gennaio ‘68. Più o meno come se la sinistra, sempre nel Giorno del Ricordo delle foibe, commemorasse Che Guevara.
Per fortuna, a richiamare tutti all’ordine ci ha pensato il solito Sergione Mattarella, che ha messo a tacere qualsiasi accenno di discussione su quanto la Costituzione italiana sia o meno antifascista.
Lie down / try not to cry / cry a lot.
Altre chicche di questa settimana in carrellata veloce: la nomina, ufficializzata, di Luigi Di Maio come inviato dell’Unione Europea nel golfo Persico.
Volevamo trovare un meme divertente, ma alla fine questo titolo era la cosa più divertente disponibile.
La nomina dell’ex capo politico del Movimento 5 Stelle ha mandato in cortocircuito il dibattito pubblico in Italia, a cominciare dalla maggioranza di governo: il ministro degli Esteri Antonio Tajani ha ribadito come la scelta dell’Alto rappresentante UE per gli affari esteri Josep Borrell sia legittima ma, allo stesso tempo, il nome di Di Maio non sia stato indicato dall’attuale governo. Più duro Salvini, che ha affermato come ci siano di sicuro figure dal curriculum più adatto. Non riferendosi a se stesso, probabilmente.
“Si dicono non rimaniamo estranei o nemici
Ma non ci riescono quasi mai
Neanche i meglio intenzionati
Ce la fanno quasi mai”
L’imbarazzo si è fatto più palpabile di fronte ai rumors che vorrebbero il nome di Di Maio indicato, e sostenuto a più riprese anche durante il processo di selezione, dall’ex premier Mario Draghi. Un apparente paradosso, quello che vede l’uomo che per moltissimi ha incarnato il concetto stesso di competenza sostenere colui che è stato il modello perfetto della stagione dell’”uno vale uno”, al di là del curriculum.
Forse, però, quello che sfugge a molti è che la situazione oggi è un po’ diversa. Non tanto per Draghi, che comunque è ormai un attore pienamente inserito nel gioco politico, che ha provato ad arrivare al Quirinale più di quanto egli stesso voglia ammettere e che coltiva i suoi legittimi interessi. Ma soprattutto, Luigi Di Maio è oggi un uomo che ha alle spalle un anno e mezzo da vicepremier e ministro del Lavoro e soprattutto tre anni da ministro degli Esteri di un paese del G7, con tutto il bagaglio di contatti e relazioni che derivano da questi incarichi. Contestare la sua nomina, invece di apprezzare che la scelta per un ruolo europeo di grande rilevanza sia caduta su un italiano, appare una reazione tra il miope e l’autolesionista.
Di Maio non ha, e verosimilmente non avrà mai, il curriculum accademico dei grandi diplomatici. Ma giudicarlo ancora uno sprovveduto sul versante politico sarebbe un errore di valutazione piuttosto grossolano. Da bibitari della politica.
Infine, la vostra rubrica preferita (chi l’ha deciso? Noi, ovviamente): che succede nel centrosinistra?
Tre esponenti del PD hanno deciso di uscire dal partito in polemica con la segreteria di Elly Schlein. Si tratta dell'europarlamentare Caterina Chinnici, che confluirà nel gruppo di Forza Italia; Andrea Marcucci, ex senatore dem e renziano della prima ora, che aderirà a Italia Viva; anche il senatore ormai ex PD Enrico Borghi, membro del Copasir, ha deciso di aderire al partito di Matteo Renzi. «Le prime scelte di Schlein rappresentano una mutazione genetica», ha dichiarato Borghi, «da partito riformista a un partito massimalista di sinistra».
Ah sì, cose che la destra dice che sarebbe una figata se fossero vere.
I nomi di Borghi, Chinnici e Marcucci non hanno un peso tale da spostare le masse, per usare un enorme eufemismo. Un dato politico interessante, però, c’è: con il passaggio di Borghi e Marcucci ad Italia Viva, il partito di Matteo Renzi avrebbe attualmente i numeri per formare un gruppo autonomo, almeno al Senato. E forse è per questo che Calenda, prima che la notizia di Borghi venisse fuori, aveva dichiarato di “essersi pentito” per gli attacchi personali a Renzi.
Troppo tardi per impietosire un vecchio volpone della politica verso cui Calenda ha commesso un unico, grande errore: salvarlo, quest’estate, quando Renzi sembrava destinato a restare fuori dal Parlamento con il suo misero 2%, offrendogli attraverso l’alleanza con Azione un’ancora di salvataggio. Certi treni passano una volta sola.
“Che vuol dire che ora può fare a meno di me?”
E mentre i centristi fanno fuggi fuggi dal PD, Schlein keffa? Oggi è impegnata a rispondere agli attacchi furiosi di chi la attacca per aver dichiarato, in un’intervista su Vogue Italia, di fare uso di una consulente per l’armocromia. Una discussione così bassa che preferiamo non addentrarci al suo interno, rimandandovi solo a due pezzi, su Rivista Studio e Rolling Stone, che hanno in comune una chiave di lettura: utilizzare questa vicenda per capire quanto il dibattito pubblico italiano sia disfunzionale.
E alla voce disfunzionale sul dizionario c’è questo signore qui.
Per questo venerdì è tutto, sperando di non aver dimenticato nulla. Per una premier senza parole, a noi ci è parso di averne fin troppe.
Ci sentiamo venerdì prossimo, ciao!