Educazione italiana
La politica reagisce (male) ai fatti di Palermo, mentre la legge di bilancio inizia a far paura.
Ciao!
Siamo Pietro e Simone,
e la quinta puntata del podcast è fuori.
Oggi partiamo da una premessa: questo è uno spazio che parla di politica italiana, quindi di solito tendiamo ad occuparci di quello che succede nei palazzi o nei loro dintorni: cerchiamo di comprendere dinamiche spesso volutamente incomprensibili, digerirle e restituirvele nella maniera più chiara possibile.
In ogni democrazia elettorale che si rispetti la politica è un’indefessa e interminabile ricerca di consensi. Questo può piacere o meno - in tutta sincerità, è difficile pensare a una persona o una categoria di persone a cui questa dinamica piaccia. La conseguenza naturale di questa ricerca di consenso è che le protagoniste e i protagonisti della vita politica italiana si mettono in bocca slogan e parole d’ordine più o meno in ogni occasione e in relazione a qualsiasi tematica. Questo gioco funziona solo finché lo slogan è una semplificazione di un pensiero o di un sistema di soluzioni complesse a problemi complessi. Il problema sopraggiunge quando queste semplificazioni non sono più solo espedienti comunicativi, ma la spina dorsale del pensiero politico di uno o più leader. In sostanza, quando la politica ragiona per slogan.
Tra il 6 e il 7 luglio, a Palermo, è andato in scena uno dei casi di violenza sessuale più crudi e violenti della storia recente in Italia. Ad abusare di una ragazza è stato un gruppo di sette giovani uomini tra i 17 e i 22 anni. La cronaca dei fatti ha avuto una discreta risonanza mediatica, soprattutto sui social, e a nessuno è sfuggita la brutalità dell’atto e delle parole usate dagli stupratori per descrivere i propri gesti. Era impossibile che sfuggisse anche al mondo della politica. La risposta è stata semplice: punizioni “esemplari” per chi commette questi reati. Sulle cause sistemiche e sul contesto educativo che ha portato sette persone ad abusare di una ragazza che conoscevano, invece, nulla o quasi.
Ma d’altronde non si può ragionare di patriarcato mentre si è intenti a discutere sulla legittimità culturale e politica di un libro scritto male, autoprodotto e promosso a mezzo stampa da uno dei più noti generali dell’esercito italiano. Libro in cui incidentalmente si sprecano riferimenti sessisti, anti-femministi e retrogradi.
In una settimana segnata da polemiche che non porteranno a nulla, comunque, c’è spazio anche per la cronaca politica un po’ più concreta. E non è una buona notizia che si sia consumata dove sempre si consuma durante la seconda metà di agosto, ovvero all’annuale meeting di Rimini organizzato da Comunione e Liberazione. Lo spazio riservato ogni anno a questo evento dovrebbe suscitare diverse riflessioni. Ma questa rassegna ha anche sollevato uno spettro che si inizia ad intravedere in lontananza, e con cui l’esecutivo dovrà necessariamente fare i conti da qui a qualche mese: una legge di bilancio che si preannuncia tra le più complicate degli ultimi anni.
Dopo questa intro più lunga del solito, iniziamo.
Il caso dello stupro di gruppo di Palermo ha riportato a galla tutti gli interrogativi che rimangono aperti ogni volta che una notizia di cronaca di questo tipo raggiunge i giornali. Ma leggere delle violenze perpetrate dalle sette persone indagate, sei delle quali sono in carcere, o di qualsiasi altro caso di violenza sessuale non restituisce un quadro complessivo della situazione.
Secondo l’ultima importante indagine compiuta dall’Istat, quasi un terzo delle donne nella fascia compresa tra i 16 e i 70 anni di età aveva subìto una violenza fisica o verbale di qualche tipo, circa 2 milioni e mezzo nel corso dei cinque anni precedenti. Gli stupri sono fortunatamente una minoranza di questi casi di violenza, ma i numeri sono impressionanti: nello stesso arco di tempo, quasi 250mila donne sono state vittime di stupro o tentato stupro.
In questi casi si direbbe: “sono i numeri di un’emergenza”. Ma nulla di tutto questo ha il sapore di un’emergenza. Casi di cronaca come quello di Palermo saltano all’occhio e incidono nelle coscienze per la loro crudezza, ma sono fenomeni visibili di una normalità che non risalta quasi mai e su cui la politica ha sostanzialmente abdicato a intervenire.
La risposta dei partiti sul caso è stata nulla, tranne per uno: la Lega. Il segretario Matteo Salvini, probabilmente memore dei tempi d’oro, ha rispolverato il librone delle risposte semplici.
Wow Matteo, molto originale.
Quello della castrazione chimica è un vecchio cavallo di battaglia leghista e il disegno di legge presentato dal Carroccio, infatti, è esattamente lo stesso presentato una legislatura fa a firma Nicola Molteni, oggi sottosegretario all’interno. Secondo questo ddl sarebbe il giudice a decidere se applicare o meno la castrazione chimica, ma in caso di recidiva o di abuso su minori il provvedimento scatterebbe in automatico. Ça va sans dire, la pena corporale piace molto anche a Fratelli d’Italia, che l’aveva proposta addirittura due volte nel 2018 e nel 2019 e che sarebbe stata da applicare dopo la scarcerazione. Come sempre e come già detto altre volte in altre puntate di questo podcast, la risposta è sempre la stessa: rendere il reato all’ordine del giorno, quindi qualcosa di già illegale, semplicemente “più illegale”. O fare ammonimenti ancora più machisti, come per il caso del sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro. Intervistato da Repubblica, ha commentato lo stupro di gruppo di Palermo con queste parole: «Mi auguro che queste belve marciscano in galera. Se poi fossero i miei figli dovrebbero avere più paura di me che della reazione dello Stato e augurarsi di restare in carcere a vita...».
In relazione ai disegni di legge in cantiere è intervenuta anche la ministra delle pari opportunità e della Famiglia, Eugenia Roccella.
Com’era quella dei cavoli a merenda?
Al di là della serietà di una proposta lanciata nel mucchio come quella sul porno, molto sensibile in teoria ma molto complessa nella pratica, il discorso sulla prevenzione è un tasto sensibile toccato dalla ministra. Il ddl anticipato da Roccella riguarda “l’uso più stringente dell’ammonimento, il potenziamento del braccialetto elettronico, l’arresto in flagranza differita, la previsione di tempi rapidi e certi per la valutazione del rischio da parte dei magistrati e per l’applicazione delle misure dopo le tante condanne che l’Italia ha ricevuto per ritardi drammatici che sono costati la vita a tante donne”, aperte e chiuse virgolette. Per quanto riguarda il femminicidio, alcune delle proposte contenute nel ddl sono sensate, per quanto quest’ultimo rimanga lacunoso (manca all’appello, tra le altre cose, il potenziamento della rete di supporto contro la violenza). Ma nulla di tutto ciò riguarda casi come quello di Palermo.
E in effetti all’unica proposta volta a prevenire almeno in parte il ripetersi di queste violenze la destra ha sempre detto no. Fratelli d’Italia, nel 2021, in una nota ribadiva la propria contrarietà all’educazione sessuale nelle scuole spiegando che fosse esclusiva competenza di genitori e famiglie. Rilanciando un sondaggio divulgato su Facebook, quindi completamente inaffidabile, nel luglio 2022 anche Salvini si diceva contrario a questa misura e commentava così: “Lasciamo che i bimbi giochino, studino, si conoscano e crescano da bimbi”.
Risultati garantiti.
Intanto la gran parte della classe politica era impegnata su un altro fronte. Già la scorsa estate, nel pieno della campagna elettorale, ci eravamo soffermati nella nostra newsletter sull’importanza per la politica italiana del meeting organizzato ogni anno, ormai da più di quarant’anni, da Comunione e Liberazione. Lo scorso anno, ad esempio, a Rimini si era tenuto il primo dibattito tra i candidati alle politiche di settembre. E la reazione entusiastica alle parole di Giorgia Meloni poteva essere un buon indizio di quello che sarebbe accaduto un mese più tardi.
Lo smodato amore di Rimini per il settore della ristorazione era, del resto, noto da tempo.
Nonostante negli ultimi anni il meeting di Rimini abbia provato a dare un’immagine di sé meno schierata e più vicina ad uno spazio di libero confronto, la gran parte del pubblico della rassegna - e allo stesso modo l’indirizzo generale degli incontri - sono ancora ascrivibili ad un’area cattolica di centrodestra. Ma nonostante questo schieramento assolutamente non nascosto, come ha dimostrato anche quest’anno l’accoglienza riservata a Matteo Salvini, anche il centrosinistra presidia puntualmente il meeting con alcuni dei suoi esponenti più rilevanti. Il risultato è che per cinque giorni tutta la politica italiana prova a farsi bella per la fetta dell’elettorato più conservatrice e a tratti reazionaria, con buona pace del titolo del festival di quest’anno: “L’esistenza umana è un’amicizia inesauribile”.
Leggendo tra le righe, però, il vero tema che emerge dall’edizione di quest’anno è il timore di diversi esponenti dell’esecutivo per la prossima legge di bilancio. A riprova di ciò, ieri mattina il Corriere riportava come già lunedì dovrebbe essere convocato un primo Consiglio dei Ministri per discutere della prossima manovra. Il primo a lanciare l’allarme, proprio a Rimini, è stato l’uomo che negli equilibri di questo governo sembra incaricato a riportare gli altri ministri alla realtà, e in un certo senso ad annunciare le brutte notizie: il ministro leghista dell’Economia, Giancarlo Giorgetti.
A tormentare i sonni di Giorgia Meloni e dei membri dell’esecutivo è soprattutto la prospettiva della fine della sospensione del patto di Stabilità, ovvero l’accordo europeo che vincola i bilanci dei paesi membri al rispetto di alcuni parametri. Il patto era stato sospeso nel 2020, per permettere agli stati europei di finanziare con più deficit la ripresa dalla pandemia; ma dal 1° gennaio 2024 tornerà in vigore, e in attesa di una probabile riforma che dovrebbe cambiarne alcuni termini, la Commissione Europea ha già avvertito l’Italia che la prossima legge di bilancio dovrà garantire una riduzione del deficit intorno allo 0,7% del PIL, equivalenti a circa 13-14 miliardi.
La morale, insomma, è che non ci sono soldi.
Simulazione verosimile del prossimo CdM.
Secondo quanto riportava Alessandro Barbera su La Stampa del 20 agosto, solo la conferma di alcune misure già in vigore come la detassazione delle buste paga sotto i 35mila euro, quota 103 per le pensioni e altre spese indifferibili costerebbe al governo circa 20 miliardi in più rispetto agli attuali saldi. Il margine di manovra per nuove spese in deficit, in base a questi calcoli, sarebbe di appena 4 miliardi.
Assolutamente insufficienti a finanziare la maggior parte delle promesse elettorali del centrodestra, che per il secondo anno di fila rimarranno disattese; e pochi anche rispetto ai fondi necessari per alcuni degli interventi su cui il governo ha puntato in tempi più recenti, come la riduzione delle aliquote Irpef e il piano per la natalità. Anche il ministro della Salute Schillaci, che ha richiesto 3-4 miliardi in più da investire nella sanità, potrebbe restare a bocca asciutta. Insomma, la coperta è corta, e nei prossimi mesi Meloni dovrà decidere cosa lasciare scoperto in vista dell’inverno.
L’ultima parte di questa puntata è dedicata interamente agli ultimi aggiornamenti sulle questioni migratorie.
Negli ultimi giorni il governo ha modificato i criteri attraverso cui i migranti arrivati in Italia vengono distribuiti tra le regioni: con le nuove regole, secondo cui verrà tenuto conto anche dell’estensione territoriale, regioni estese ma scarsamente popolate saranno incaricate dell’accoglienza di una quota maggiore di migranti. È il caso della Basilicata: il cui presidente Vito Bardi, eletto in quota Forza Italia, non ha mancato di criticare la scelta dell’esecutivo. Ma Bardi non è l’unico amministratore locale di centrodestra a far parte della fronda interna anti-migranti. Anche diversi sindaci della Lega Veneto si sono espressi contro l’accoglienza diffusa, chiedendo un aumento dei rimpatri.
Se sulla terraferma il governo è alle prese con una gestione difficile, nel Mediterraneo invece prosegue senza esitazioni la linea della criminalizzazione delle ONG. L’ultimo caso riguarda la Sea-Eye 4, che ha annunciato di aver ricevuto una multa di 3mila euro, nonché l’imposizione del fermo amministrativo a Salerno per 20 giorni, per ripetuta violazione delle direttive del decreto Cutro. Il motivo: l’imbarcazione aveva fatto scalo a Lampedusa per fare rifornimento anziché dirigersi al porto indicato.
Una notizia che ha dato vita ad un botta e risposta tra Giorgia Meloni e Elly Schlein.
Se questo è lo scontro politico più duro della settimana, capite da soli che sono stati sette giorni sonnecchianti.
La segretaria del PD ha accusato la premier di aver dato vita al “reato di solidarietà”; Meloni, dal canto suo, ha affermato di aver semplicemente fatto rispettare leggi che, nella sua visione, scoraggerebbero la tratta di esseri umani. Eppure, come abbiamo già affermato diverse volte, sempre più spesso è proprio la Guardia Costiera italiana a richiedere il supporto delle Ong, che una volta attraccate vengono criminalizzate e sanzionate per quello stesso supporto. Un cortocircuito destinato, prima o poi, a mostrare tutti i suoi limiti nella gestione del fenomeno migratorio.
Per questa settimana è tutto, noi ci sentiamo venerdì prossimo, 1° settembre. Con la fine dell’estate ci saranno delle novità che vi racconteremo presto, ma ogni cosa a suo tempo. Per ora, volevamo solo trasmettervi un po’ di hype.
Ciao!