Cifra tonda
A ferragosto il governo incontra qualche problema con i numeri. Noi torniamo a scrivere (anche) una newsletter.
Ciao!
Siamo Pietro e Simone,
e siamo tornati con una nuova puntata del podcast.
Ma non solo.
Come vi annunciavamo qualche settimana fa, questo sarà un periodo di sperimentazioni per trovare il miglior equilibrio possibile tra le diverse componenti di questo progetto. Motivo per cui questa settimana abbiamo provato ad adattare una parte del podcast nel vecchio formato della newsletter: per conservare i meme che tanto piacevano a noi e a tutti voi, e allo stesso tempo rinviare al podcast per ulteriori approfondimenti sui temi.
È una fruizione che indubbiamente richiede più tempo, ma che allo stesso tempo ci permette di spaziare meglio sia sul lato dei contenuti in senso stretto, sia su quello dell’ironia. Come già anticipato, si tratta di tentativi: potete aiutarci inviando i vostri feedback e suggerimenti a buoneintenzioninewsletter@gmail.com, o scrivendoci ai nostri profili Instagram, @pietroforti.docx e @simonemartuscelli.
Fatta questa premessa, iniziamo.
Questa settimana partiamo da una constatazione: per la prima volta da quando esiste questo progetto, forse, la politica italiana non ci ha rovinato quei pochi momenti di pausa che proviamo a concederci. Nessuna rocambolesca rottura nel terzo polo, nessun lutto inaspettato che cambia i nostri piani all’ultimo.
Da qualche parte nel mondo, Rocco Casalino è felice di aver potuto finalmente festeggiare ferragosto in serenità.
Quello che abbiamo trovato al nostro rientro, però, è uno scenario deprimente. Soprattutto perché basta un po’ di memoria storica per accorgersi come la politica italiana sia sempre uguale a sé stessa.
Nel 2008 il quarto governo di Silvio Berlusconi varò la Robin Hood Tax, una tassa sui profitti in eccesso delle aziende energetiche. Nel 2015 questa tassa è stata dichiarata incostituzionale, ma è stata mascherata riproposta in varie salse e in vari momenti della vita politica italiana. Ed è tornata sulle scene un’altra volta, di nuovo per mano di un governo di destra. Questa volta sono gli extraprofitti delle banche a essere presi di mira. E ci sono molti motivi per cui potrebbe non funzionare.
Come non ha funzionato, d’altronde, l’approccio meloniano all’immigrazione. Dal blocco navale promesso durante la campagna elettorale al decreto Ong passando per gli accordi con la Tunisia: il governo le ha provate tutte per dimostrarsi inflessibile contro il flusso ininterrotto delle partenze. Ma dal Mediterraneo continuano ad arrivare persone, spesso in condizioni disastrose. Gli sbarchi hanno superato la quota psicologica di 100mila persone nel 2023. Nel 2022, da capodanno a ferragosto, erano meno della metà. Le morti sono circa duemila. Ora il governo chiede aiuto alle ONG per le operazioni di salvataggio, mentre continua a condannarle in pubblica piazza. La più plastica rappresentazione della pratica del bastone e della carota.
La sera di lunedì 7 agosto il governo, per bocca del vicepremier Matteo Salvini, ha annunciato di voler imporre una tassa al 40% sugli extraprofitti delle banche. Secondo il Sole 24 ore si tratta della differenza degli interessi «tra l’esercizio 2021 e 2022 eccedente il 5%», sia «l’eccedenza del 10% maturata tra il 2021 e il 2023». Questa formula complicata riassume un concetto in realtà piuttosto semplice: le banche si sono arricchite grazie all’aumento dei tassi di interesse su mutui e prestiti dettato dall’Unione europea. Questo continuo e graduale aumento era volto a fermare o quanto meno rallentare l’inflazione dopo anni di tassi bassissimi e quasi nulli, ma è stato spesso attaccato duramente da esponenti della maggioranza e proprio da Salvini.
La giusta credibilità per criticare le istituzioni europee.
La politica della BCE ha effettivamente giovato alle banche. Durante gli ultimi 12 mesi, gli istituti più grandi hanno registrato un aumento del 60% sui profitti. Nonostante ciò, fino a poche settimane fa il ministro dell’Economia leghista Giancarlo Giorgetti aveva smentito in lungo e in largo l’intenzione di volersi impelagare nell’imposizione di una nuova tassa, dichiarando che “non fosse in cantiere”.
A quest’annuncio, inaspettato, la borsa ha reagito bruciando circa 10 miliardi in un giorno, al che il ministro dell’Economia ha dovuto rassicurare le banche spiegando che sarebbe stato imposto un tetto massimo a questo prelievo dai loro extraprofitti.
L’imposta in sé è un po’ un accrocco: si mira a tassare questi extraprofitti ma non troppo e ci si apre a vari tipi di ricorso. Una tassa sugli extraprofitti delle aziende energetiche imposta dal governo Draghi già aveva parzialmente fallito e l’attuale norma rischia di essere talmente generica da essere oggetto di parecchi ricorsi. Come fa notare Banca Etica, inoltre, rischia di provocare il cosiddetto “credit crunch”: semplicemente, le banche potrebbero essere meno disposte a dare prestiti ed erogare mutui, a scapito delle fasce sociali più deboli.
In ogni caso i soggetti non entusiasti della misura c’è anche Forza Italia, il più liberista tra i tre principali partiti di governo. Il segretario del partito Antonio Tajani è intervenuto nel merito della proposta, chiedendo di inserire alcuni emendamenti che rendano la tassa deducibile, che ne confermino il carattere di intervento “una tantum” e che escludano i piccoli istituti di credito. Ma è soprattutto il metodo ad aver lasciato perplessi gli alleati di Giorgia Meloni.
Con una tripla uscita sulle prime pagine di Corriere, Repubblica e La Stampa, lunedì 14 agosto, la premier si è presa le responsabilità del provvedimento, sostenendo che la decisione sulla tassa per gli extraprofitti sia stata sua e aggiungendo inoltre che pezzi anche importanti della maggioranza, come appunto i vicepremier Tajani e Salvini, non sono stati coinvolti perché - citando le parole di Meloni - “la questione non doveva girare troppo”.
“Da bravi, andate a fare i compiti, che mamma e papà devono parlare di cose importanti”.
Ad un problema economico, insomma, se ne aggiunge uno politico. Se è vero che Meloni ha dichiarato ai giornali di “non aver paura di un autunno caldo”, la premier però deve prima pensare prima alle possibili conseguenze interne di quella che sembra, a tutti gli effetti, un’insolazione ferragostana.
Ma la questione su cui il governo ha operato la giravolta più clamorosa è senza dubbio quella dell’immigrazione. L’esecutivo guidato da Giorgia Meloni le ha provate più o meno tutte: stringere accordi con qualunque paese e milizia di confine, dichiarare lo Stato d’emergenza, iniziare a strutturare un “piano Mattei per l’Africa” fino a, semplicemente, non intervenire con un salvataggio a poche centinaia di metri dalle coste italiane. Se l’obiettivo era quello di mandare un messaggio a chi parte alla volta dell’Italia e dell’Europa si può stare certi che non sia arrivato. Anche perché spesso non sono messaggi proprio edificanti.
Immagina di essere ministro dell’Interno avellinese laureato fuorisede a Bologna e dare lezioni sulle partenze a chi scappa dalla fame e dalla guerra.
Come sempre accade d’estate, quando il bel tempo corrisponde a un numero spropositato di partenze attraverso il Mediterraneo, si sono moltiplicati sbarchi e profughi. Come sempre è Lampedusa il punto di arrivo più sognato da chi mette piene sulle barche. L’hotspot, pensato per ospitare circa 400 persone, è perennemente riempito quattro o cinque volte oltre la propria capienza, e al momento tra le 1500 e le 2000 persone sono presenti nella struttura.
Ma in settimana si è parlato di immigrazione per il raggiungimento di due cifre tonde, ampiamente pronosticabili ma a cui nessuno stomaco sarebbe preparato, neanche quello degli esponenti della maggioranza. Da gennaio 2023 in Italia sono sbarcate 102mila persone. Nello stesso periodo, lo scorso anno questa cifra si fermava a 49mila. L’Organizzazione internazionale per le migrazioni ha poi fatto sapere che nel Mediterraneo dal 2014 sono morte 22mila persone, 2mila solo nel 2023. Un dato così alto era inedito dal 2017. E moltissimo ha a che fare con la nuova rotta principale dell’immigrazione via mare dall’Africa e dal paese nordafricano che coinvolge, ovvero la Tunisia.
Moltissimi dei naufragi nel Mediterraneo, come quello che il 9 agosto si è lasciato dietro oltre quaranta morti, riguardano barche che partono proprio dalla Tunisia. E non è un caso: qui la rotta è nuova, gli accordi ancora non sono operativi e le autorità tunisine ancora non bloccano le partenze con la stessa frequenza e crudeltà con cui lo fa la cosiddetta guardia costiera libica. Persino le imbarcazioni sono più fragili, spesso “nuove” e più improvvisate.
A far fronte a questa perenne strage, come sempre, ci sono anche e soprattutto le ONG, nonostante il decreto che mette tanti bastoni tra le ruote a queste organizzazioni. L’ennesimo esempio dell’aggressività della destra contro le ONG è la mini-campagna stampa contro il veliero Trotomar III, dell’organizzazione tedesca “People in Motion” membro del Compass Collective. La nave ancora deve salpare dal porto di Licata per intervenire proprio sulla rotta che parte da Sfax, ma giornali di destra come Libero e Secolo d’Italia ci hanno messo pochissimo a saltare sulla storia, parlando di “sfida” al governo italiano.
Governo che, però, si sta sempre più spesso appoggiando alla presenza delle ONG nelle acque del Mediterraneo per i salvataggi, costringendo il ministero a quella che probabilmente ha vissuto come un’ammissione di colpa.
Ringraziamo il Messaggero per non aver riportato la frase successiva: “ho tanti amici neri”.
In chiusura, qualche notizia breve che ci siamo persi durante le ferie.
La misura sugli extraprofitti di cui abbiamo parlato all’inizio è stata inserita in una serie di provvedimenti passati alla cronaca come “decreti Omnibus”, e dal nome è facilmente intuibile come al loro interno ci sia praticamente di tutto. Abbastanza, comunque, da far impazzire il nostro rilevatore di dadaismo della politica italiana.
Ci sono ad esempio provvedimenti contro la diffusione del granchio blu, che ha suscitato l’ilarità del presidente del Veneto Luca Zaia.
Il leghista meno ossessionato dal gender.
c’è anche lo stop all’isolamento per i positivi al Covid, l’ultimo provvedimento ancora in vigore dalla pandemia; e ancora un aumento del 20% delle licenze per i taxi, alcune misure per contenere le tariffe dei voli e, infine, l’abolizione del tetto agli stipendi per i manager che saranno coinvolti nel progetto del Ponte sullo Stretto. Cosa mai potrà andare storto?
E a proposito di rincari: chiunque abbia viaggiato in macchina in questi giorni avrà notato l’aumento vertiginoso dei prezzi della benzina, arrivati perfino a toccare i due euro al litro. Nel difendersi dalle proteste delle associazioni di categoria, il ministro delle Imprese e del Made in Italy (è sempre bello ricordare la denominazione completa) Adolfo Urso ha ulteriormente complicato la matassa, sostenendo che le tariffe italiane siano più basse di quelle di Francia e Germania, se depurate dalle accise.
Greatness recognizes greatness.
Ecco, appunto, le accise: un altro evergreen della politica italiana. Tutti promettono di abolirle, finché non si arriva al governo.
Ad oggi le accise pesano tra il 30% e il 35% sul costo finale del carburante, e sempre per quella nostra passione per il situazionismo nostrano, ce ne sono alcune di spassose: sul costo della benzina oggi, ad esempio, pesano ancora i finanziamenti per la guerra d’Etiopia del 1936 o per la crisi di Suez del 1956. Eliminarle, per ora, appare fuori discussione: il taglio di 30 cent/litro operato dal governo Draghi nel 2022 è costato 9 miliardi alle casse statali. Una spesa che Meloni, ora che ha accesso alla stanza dei bottoni, si guarda bene dal sostenere.
Uno sguardo rapido, inoltre, alle opposizioni: il Partito Democratico ha lanciato una petizione per sostenere la sua proposta per un salario minimo orario di 9 euro. La raccolta firme sembrerebbe aver avuto un successo tale da far crashare ripetutamente il sito, evidentemente non abituato ad avere visitatori, e in pochi giorni sono state raccolte circa 200mila firme.
Forse, un primo parziale spiraglio di luce per la segreteria Schlein, che sembra aver trovato un cavallo di battaglia attraverso il quale spostare il partito più a sinistra forte di un consistente sostegno popolare.
PD quando scopre che proporre cose utili alle persone porta consenso.
Infine arriviamo alla chiusura di una storia che ha emozionato tutto il mondo e che ha mandato in iperventilazione il ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano.
L’annunciatissimo incontro di MMA tra Elon Musk, il patron di Tesla, SpaceX e Twitter, ora X, e il fondatore di Facebook a capo di Meta Mark Zuckerberg non si farà. Lo ha spiegato Zuckerberg su Instagram Threads, il social network copia di Twitter lanciato da Meta. Era proprio questa piattaforma ad aver creato lo scontro tra i due, con Musk a lanciare il guanto di sfida a Zuckerberg, già cultore delle arti marziali. Perché ne stiamo parlando? Perché i due, a detta di Musk, si sarebbero dovuti scontrare in una cornice “epica” in Italia. Nella settimana delle polemiche sul concerto di Travis Scott al Circo Massimo, il governo italiano era saltato addosso a questa occasione, con Sangiuliano pronto a promettere che il tutto fosse praticamente già pronto in un location storicamente evocativa.
Cosa ci rimane: la consapevolezza di vivere nella migliore tempolinea.
Ci sembra opportuno citare la newsletter “Ora di Pensiero” di Martino Wong: come se Musk e Zuckerberg non avessero già a disposizione le più grandi piattaforme del mondo per esprimere i propri pensieri.
Per questa settimana è tutto, noi ci sentiamo venerdì prossimo.
Ciao!
Grazie per la menzione ❤️