Boots on the ground
Le visite di Meloni a Caivano e di Mattarella a Brandizzo vanno lette in maniera totalmente opposta.
Ciao!
Siamo Pietro e Simone,
e c’è una nuova puntata del podcast online.
Nel lanciare questo progetto, siamo sempre stati entrambi d’accordo riguardo al fatto che la politica italiana, finora, sia stata raccontata troppo per retroscena e poco sui contenuti reali. Lo scorso anno, durante la campagna elettorale, dedicavamo uno spazio settimanale - quello della domenica - all’analisi di un singolo tema, e del modo in cui veniva affrontato dai programmi elettorali dei partiti. Un modo di analizzare i fatti che vogliamo conservare, e su cui stiamo già lavorando, senza troppi spoiler.
Non sappiamo se sia una contraddizione o meno, ma a volte ci sembra necessario anche fermarsi a ragionare sui simboli: che sono lontani dai fatti concreti, ne sono quasi la negazione, ma servono a costruire le narrazioni, che a loro volta possono far vincere le elezioni: e i voti sì che sono una delle cose più concrete che esistano.
Ieri il presidente del Consiglio e il presidente della Repubblica sono stati impegnati in due spostamenti istituzionali, molto diversi tra di loro. Largamente preparato quello della premier, anche con qualche gaffe; improvvisato, in seguito ad un avvenimento tragico, quello del Capo dello Stato. E proprio su queste differenze, forse, bisogna soffermarsi un attimo in più, per provare ad interpretare meglio alcuni dei fatti che interesseranno la politica italiana nei prossimi tempi.
Detto ciò, iniziamo.
Nella scorsa puntata ci eravamo occupati, dopo il caso di Palermo, delle risposte della politica al problema endemico della violenza di genere. E proprio nella serata di venerdì scorso è venuto alla luce un altro episodio raccapricciante che possiamo ascrivere a questa categoria. A Caivano, in provincia di Napoli, due ragazzine di 10 e 12 anni sarebbero state abusate per mesi da un gruppo di almeno quindici ragazzi. Violenze che sarebbero anche state registrate, con i video usati come arma di ricatto per impedire la denuncia.
A peggiorare ulteriormente il quadro della situazione, in questo caso, è il contesto nel quale sono avvenuti i fatti: il Parco Verde di Caivano, infatti, è tra le principali piazze di spaccio d’Europa; un’area abbandonata al degrado nonostante nasca, negli anni ‘80 da intenti diametralmente opposti, ovvero la riqualificazione dopo il terremoto dell’Irpinia del 1980. Si tratta, inoltre, di un territorio non nuovo a fatti di questo tipo: nel 2014 una bambina di sei anni, Fortuna Loffredo, morì scaraventata dall’ottavo piano di un palazzo dopo l’ennesimo atto di una serie di violenze sessuali che andavano avanti da più di un anno. Una circostanza che è stata ricordata da Giorgia Meloni nella sua visita di ieri a Caivano.
Lunedì la premier aveva accettato l’invito a recarsi sul posto avanzato dal parroco locale, don Maurizio Patriciello, da anni impegnato nella lotta alla criminalità organizzata nell’area. Nel suo discorso, Meloni ha annunciato che è intento del governo riaprire entro la prossima primavera, riqualificandolo, il centro sportivo Delphinia: finito sotto sequestro lo scorso luglio «per l’esistenza di gravi rischi per la salute e l’incolumità pubblica» in quanto luogo di sversamento di rifiuti tossici e ritrovo di tossicodipendenti, nonché teatro delle violenze nei confronti delle due ragazzine. Meloni ha poi parlato di “bonificare il territorio”: una frase non felicissima per qualcuno che viene dalla sua storia politica.
No, questo non è il TG1 diretto da Gian Marco Chiocci.
In realtà, la passerella di Meloni a Caivano ci dice soprattutto come la luna di miele della premier con l’elettorato, forse, non sia mai davvero finita. Meloni può ancora parlare di “fallimento dello Stato” perché sa di essere percepita come altro rispetto a chi ha rappresentato quelle istituzioni negli ultimi anni. Quanto ci vorrà prima che inizi a dover rendere conto effettivamente del proprio operato senza vie di fuga, resta un mistero.
Certo è che delle piccole fratture si iniziano ad intravedere. L’ultima, proprio in occasione della visita a Caivano, è emersa grazie alla diffusione di alcuni messaggi inviati dal coordinatore di Fratelli d’Italia in Campania Antonio Iannone in una chat interna al partito. In questi messaggi Iannone chiede alla dirigenza di mobilitarsi per portare persone ad accogliere l’arrivo di Meloni, ma senza bandiere di partito per dare l’impressione che si tratti di cittadini qualunque. Anche per contrastare possibili contestatori visto che, citando Iannone, “lì sarà pieno di Redditi di Cittadinanza”.
“E questi Redditi di Cittadinanza, sono qui con noi in questa stanza?”
Il coordinatore ha poi dichiarato che "Quel messaggio è una resa 'infedele' di ciò che intendevo raccomandare": tutto giusto, peccato che l’abbia scritto lui. Ammettere di non essere in grado di esprimere un pensiero in parole non dovrebbe essere di conforto.
Ma Antonio Iannone non è l’unico uomo ad aver creato delle grane alla premier questa settimana. A complicarle le cose - come per altro gli sta riuscendo sempre più spesso - ci ha pensato anche il suo compagno di vita, Andrea Giambruno, con un’uscita quanto meno discutibile durante la sua rubrica su Rete 4, “Diario del giorno”.
Dentro ognuno di noi ci sono due lupi ecc.
Insomma, mentre Meloni si impegnava per sostenere le vittime delle violenze, il first gentleman si esibiva in un esercizio da manuale di colpevolizzazione delle vittime. Quello che continua a sorprendere, però, è la costanza con cui tutte le contraddizioni del pensiero politico della destra italiana, accuratamente filtrate e nascoste dalla leader indiscussa del campo, continuano a saltare fuori per bocca delle persone più vicine a lei. Un morbo che ha finito per uscire dalla sua cerchia politica e contagiare anche la sfera privata.
L’altra visita di Stato di questa settimana nasce, allo stesso modo, da un fatto altrettanto tragico. Nella notte tra mercoledì e giovedì a Brandizzo, nel torinese, cinque operai che lavoravano sui binari della linea Torino-Milano sono stati travolti e uccisi da un treno arrivato a piena velocità, che ha provocato anche due ferimenti.
La dinamica è ancora poco chiara. La pista principale porta ad un errore di comunicazione, in quanto i lavori sarebbero dovuti iniziare solo dopo il passaggio del treno; ma ad aggravare la situazione c’è il certificato di sicurezza dell’azienda per cui lavoravano i cinque operai, scaduto lo scorso luglio.
La vicenda di Brandizzo è solo l’ennesimo capitolo di un’altra tragedia endemica ma silenziosa, tutta italiana: quella delle morti sul lavoro. Nei primi sei mesi del 2023 i decessi sul posto di lavoro, secondo i dati dell’Inail, sono stati 450, all’incirca 2,5 ogni giorno; mentre nel 2022 i morti di lavoro erano stati 1090. L’Osservatorio Sicurezza sul Lavoro e Ambiente Vega, invece, estende il conteggio anche al mese di luglio e conta 559 decessi, di cui 430 in occasione di lavoro e 129 in itinere. Il dato INAIL, inoltre, non comprende i decessi relativi alle malattie professionali, dato che l’istituto non diffonde. Nel 2022 le denunce relative a queste malattie erano aumentate del 10% rispetto al 2021.
A commentare questi dati basterebbero le parole del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, recatosi già nel pomeriggio di ieri sul luogo dell’accaduto, che ha parlato delle morti sul lavoro come “oltraggio alla convivenza”.
Ma la visita di Mattarella è rilevante anche perché rimette al centro del dibattito pubblico il tema del lavoro e della sicurezza sul lavoro, esattamente per quella funzione simbolica di cui parlavamo all’inizio. Detta l’agenda, insomma: un compito che invece non sembra riuscire granché bene alle forze di opposizione.
No, non quest’agenda, per l’amor del cielo.
Una dinamica che può creare distorsioni preoccupanti. Domenica scorsa, a conclusione del meeting di Rimini di cui vi avevamo parlato nell’ultima puntata, il presidente della Repubblica ha tenuto il suo discorso: e molti hanno interpretato le sue parole come un richiamo all’ordine nei confronti del governo su diversi temi. Sull’immigrazione, soprattutto: Mattarella ha ricordato la necessità di non considerare i migranti come numeri ma “innumerevoli, singole, persone”, e di garantire flussi regolari “in numero adeguatamente ampio”; ma anche sull’alluvione in Romagna e sulle politiche di contrasto all’odio, in piena polemica Vannacci, ha lanciato dei messaggi chiarissimi per chi doveva riceverli.
Che l’unico argine all’egemonia politica del governo sia la Costituzione, e quindi la figura istituzionale che più di tutte la incarna, appare preoccupante: soprattutto rispetto all’incapacità di formulare una proposta politica alternativa. Ma anche perché la Carta costituzionale non è immodificabile, ed eventuali modifiche potrebbero intervenire anche sul solo contrappeso che sembra limitare lo strapotere dell’esecutivo.
In settimana, infatti, è circolata su alcuni media una prima bozza della riforma costituzionale che introdurrebbe in Italia il premierato, e quindi un maggiore accentramento dei poteri nelle mani del presidente del Consiglio. Questa versione darebbe al premier, che si vorrebbe scelto per elezione diretta, il potere di nominare e revocare i ministri, nonché di sciogliere le camere. Tutte prerogative che oggi appartengono al presidente della Repubblica: ed è proprio il ruolo del Quirinale il vero interrogativo di questa riforma.
Low effort.
In un’intervista di ieri a La Stampa, ad esempio, il presidente emerito della Consulta Gaetano Silvestri mette in guardia dal rischio di uno scontro istituzionale permanente, con una sovrapposizione di poter mai del tutto chiarita; o, nell’ipotesi peggiore, da una possibile svolta autoritaria, dovuta proprio alla messa in ombra della figura del Presidente della Repubblica.
La battaglia per limitare, o eliminare del tutto, l’ultimo ostacolo alla piena autonomia dell’operato del governo, potrebbe essere appena cominciata.
“L'Europa deve capire che l'Italia non può essere lasciata sola in merito al fenomeno migratorio. Questa è la porta d'ingresso dell'Europa e l'Europa deve intervenire con noi”.
Potrebbe tranquillamente essere una challenge: il candidato collochi nel tempo queste dichiarazioni da parte di un esponente di spicco di Fratelli d’Italia. Una sfida non facile: le parole d’ordine sono sempre le stesse, al di là del contesto politico. Questa volta a parlare era il ministro del Made in Italy, Adolfo Urso, e la dichiarazione risale a domenica 27 agosto. Urso era in visita non ufficiale all’hotspot di Lampedusa, la cui situazione ha definito “insostenibile”.
Spongebob mostra la quantità di volte che la situazione all’hotspot di Lampedusa è stata definita “insostenibile” ad un Patrick che continua imperterrito ad invocare il blocco navale.
Stavolta, però, queste parole arrivano dopo varie dichiarazioni vittoriose riguardo l’immigrazione da parte della presidente del Consiglio Giorgia Meloni. Il 16 luglio scorso, infatti, la leader di Fratelli d’Italia si trovava a Tunisi insieme alla presidente della Commissione europea Ursula Von der Leyen. Quando dalla capitale di un Paese non europeo si parla di interessi strategici e ci sono leader europei nella stanza non è difficile dove si voglia andare a parare: si vuole parlare di immigrazione. E il 16 luglio Meloni e von der Leyen erano a Tunisi per incontrare Kais Saied e per aiutare il presidente-autocrate tunisino... ad aiutarle. Una Tunisia poco stabile e senza il giusto supporto al livello internazionale non era in grado di fare l’unica cosa che davvero importa all’Europa da un paese di confine, ovvero frenare il fenomeno migratorio. E il memorandum firmato il 16 luglio da Saied, von der Leyen, Meloni e dal primo ministro dimissionario olandese Mark Rutte si muove proprio in questa direzione.
Ma da quel giorno, cosa non ha funzionato? E prima ancora, cosa non ha funzionato negli ultimi ventun anni? Semplicemente, l’approccio italiano ed europeo al fenomeno migratorio nel suo complesso.
La legge che ancora oggi regola l’ingresso in Italia di persone non italiane, la Bossi-Fini, risale al luglio 2002. Per ventun anni nessun governo, di qualsiasi colore fosse, non ne ha mai rivisto i principi: dalla pubblicazione in Gazzetta Ufficiale della Bossi-Fini, per entrare in Italia è necessario avere un contratto di lavoro prima ancora di mettere piede sul suolo italiano. L’obiettivo non è mai cambiato: fermare le partenze, introducendo un concetto semplice quanto brutale: il reato di clandestinità. Chi viene in Italia a “rubare il lavoro” non lo può fare legalmente.
Materiale per @affermazioni.
Questo è un concetto tanto semplice quanto inefficace, come dimostra la portata del fenomeno migratorio verso o attraverso l’Italia negli ultimi dieci anni. E quindi, per rafforzare i principi sancìti con la Bossi-Fini, dal 2017 in poi l’Italia ha stretto accordi con Paesi terzi per aiutare a bloccare le partenze. L’ultimo è proprio il memorandum con la Tunisia, il Paese da cui negli ultimi mesi sono partite più imbarcazioni.
L’obiettivo dei partiti italiani, da Fratelli d’Italia fino al PD dei governi Conte 2 e Draghi, è stato quello di coinvolgere l’Europa in questi accordi proprio in nome di quanto dichiarato da Urso: non ce la possiamo fare da soli a fermare centinaia di migliaia di migranti, aiutateci. Ma l’Unione europea e i suoi Stati membri sono già coinvolti in questa politica. Molti Stati dell’est Europa, Ungheria in primis, hanno adottato politiche di confine durissime. Le politiche del premier greco Kyriakos Mitsotakis, che oggi ha incontrato Giorgia Meloni, hanno portato a stragi come il naufragio più clamoroso e sanguinoso nel Mediterraneo degli ultimi anni, quando a giugno al largo di Pylos sono annegate più di 700 persone a causa dell’intervento disastroso della guardia costiera ellenica. Dal 2011 l’UE ha pagato alla Turchia, aspirante Stato membro, circa 10 miliardi di euro per le strutture dove sono stati bloccati milioni di rifugiati della guerra in Siria. Nel 2022 l’agenzia deputata a sorvegliare i confini europei, Frontex, è stata coinvolta in uno scandalo che ha portato alle dimissioni del suo direttore, Fabrice Leggeri, a seguito di accuse di ripetute violazioni dei diritti umani.
Se è questo l’aiuto che il governo l’Italia chiede all’Europa, le domande sono due: quanti altri anni di morti in mare servono per capire che questa politica non funziona? E soprattutto: se a un certo punto funzionasse, quale sarebbe il prezzo da pagare in vite umane per difendere i confini da persone in cerca di una vita migliore?
Per questa settimana è tutto, noi ci sentiamo venerdì prossimo.
Ciao!