'A livella
O di come i funerali di un magnate siano trascurabili di fronte a 600 morti in mare.
Ciao!
Siamo Pietro e Simone,
ed è la prima volta dalla scorsa estate che ci sentiamo più volte nel corso di una settimana.
PTSD.
Visto che c’è un po’ di gente arrivata negli ultimi giorni, procediamo con le presentazioni: siamo Pietro Forti e Simone Martuscelli, e questa è una newsletter che prova a ridere per non piangere della politica italiana. A pensarci forse è la miglior definizione che abbiamo mai dato.
Per contattarci o confessarci che vi abbiamo salvato la vita, potete trovarci alla mail buoneintenzioninewsletter@gmail.com o sui nostri profili Instagram, @pietroforti.docx e @simonemartuscelli. Per condividere questa gioia con chi volete (perché essere avari, in fondo?) vi basta cliccare sul pulsante qui in basso.
Adesso iniziamo.
La settimana, prima e dopo la morte di Silvio Berlusconi e dei suoi funerali, è stata segnata dalla gestione della crisi migratoria. Paradossalmente, in una newsletter che si occupa di politica è difficile trattare l’argomento perché dell’argomento la politica ha parlato a mala pena. Ma di fronte all’ennesima tragedia in mare, ignorata per dare spazio ai funerali di piazza Duomo, cerchiamo almeno in questa newsletter di rimettere in ordine le cose.
Nella notte tra martedì 13 e mercoledì 14 un gigantesco peschereccio diretto in Italia è affondato al largo della Grecia. A bordo c’erano sicuramente più di 500 persone, anche se secondo alcune stime i migranti sulla nave erano più di 700. Si sono salvati in 104 e sono stati recuperati i corpi di 78 persone. I dispersi, quindi, sono almeno 300. E si tratta di stime molto al ribasso, con la possibilità che si arrivi a contare fino a 600 vittime. Con ogni probabilità, quindi, le morti saranno da contarsi nell’ordine delle centinaia, anche se le operazioni Sar (search and rescue) sono tuttora in corso. Nella stiva della nave, secondo le testimonianze dei superstiti, ci sarebbero stati circa un centinaio di bambini.
Secondo Flavio Di Giacomo, dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) «se questi numeri fossero confermati, si tratterebbe del secondo naufragio più grave avvenuto nel Mediterraneo dopo quello dell’aprile 2015».
La nave era partita l’8 giugno ed era stata avvistata da Frontex, l’agenzia europea di difesa dei confini, la mattina del 13 giugno. Da quel momento le autorità greche e quelle italiane si sono rimpallate le responsabilità. Nel frattempo, la nave ha iniziato ad andare alla deriva. Nessuno è intervenuto fino al naufragio, avvenuto intorno alle 2:30.
Film già visti.
Il peschereccio partiva da Tobruk, in Libia, una zona in cui il governo di Tripoli praticamente non esercita autorità. Come spiega Daniele Raineri su Repubblica, il porto sarebbe indirettamente gestito dal generale Khalifa Haftar, che tuttavia non controlla i gruppi paramilitari che lucrano sulla pelle dei migranti. Giorgia Meloni aveva ricevuto Haftar a Palazzo Chigi il 4 maggio “incassando” l’assicurazione che nessuno sarebbe partito da quel porto. Promessa, evidentemente, non onorata. Secondo Associated Press, il peschereccio seguiva una rotta altamente inusuale per evitare i respingimenti operati dalla cosiddetta Guardia costiera libica. Nessuno aveva intenzione di finire nei campi di concentramento per migranti allestiti e gestiti con l’aiuto dell’Italia. Da qui il “giro largo” che la nave, una volta passata vicino alla Grecia, intendeva allungare fino alle coste italiane.
Del mantra del “fermare le partenze” abbiamo già parlato più volte in questa newsletter. Mai come ora, però, il fallimento di questa politica aveva portato frutti disastrosi.
Un naufragio del genere porterà senz’altro a rivedere questa politica. Vero?
No.
I giorni precedenti al naufragio erano stati segnati dai viaggi di Giorgia Meloni in Tunisia. Prima da sola e poi, appena cinque giorni dopo, accompagnata dalla presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen e dal primo ministro olandese Mark Rutte. Obiettivo dichiarato, tamponare la crisi economica che sconquassa il Paese fornendo aiuti economici al regime di Kais Saied, il presidente ultranazionalista xenofobo che governa in Tunisia dal 2019. Oltre a tentare di portare l’esecutivo di Tunisi e il Fondo Monetario Internazionale a un accordo per una nuova tranche di aiuti, la delegazione europea ha l’obiettivo di porre fine alle partenze sul modello di quanto già fatto con poco successo in Libia. Nei giorni del viaggio vengono a galla foto che dimostrano come la Tunisia sia l’ennesimo Paese inadatto a gestire fenomeni di questa portata: decine di corpi di migranti morti in mare lasciati a marcire sul pavimento dell’obitorio di Sfax, ovvero uno dei principali porti da cui partono le navi stracolme di persone dirette verso l’Europa.
Il ministro degli Esteri Antonio Tajani, intervistato su Repubblica domenica 11, dichiarava che le foto dimostravano che «la Tunisia ha bisogno di aiuti [...] Purtroppo, in uno Stato che non ha strutture ospedaliere e di accoglienza adeguate, più forte è l’esodo più aumenta il rischio di morti in mare e di assistere a queste scene disumane».
Il governo italiano, dunque, sa che la Tunisia non è un porto sicuro e che non è pronto a gestire l’emergenza. D’altra parte, per ammissione dello stesso governo, queste strutture non sono adeguate neanche in Italia, anche se la situazione è sensibilmente più gestibile di quanto non lo sia in Tunisia (qui un approfondimento curato da Openpolis e ActionAid per capire un po’ di più sul funzionamento del sistema di accoglienza in Italia).
L’obiettivo, dunque, è sempre quello: tenere lontani i migranti dall’Italia. E con un’Unione europea determinata a disinteressarsi del problema, scene di rimpalli con conseguenze letali per le persone in mare sono destinati ad aumentare.
D’altronde, non possono sbarcare se non arrivano in Italia.
A quest’approccio sempre più restringente in termini di salvataggi di persone in mare si unisce un altro tassello. Continuando ad andare a ritroso, l’8 giugno il Consiglio europeo dei ministri dell’Interno è arrivato a un accordo che supera i famigerati accordi di Dublino, per i quali salvataggio e accoglienza erano in capo allo Stato membro di primo arrivo (quindi i Paesi di confine come l’Italia). Questa nuova intesa prevede una redistribuzione a livello europeo dei migranti (30mila per Stato membro) ma con un’eccezione: chi decidesse di non voler accogliere migranti può pagare 20mila euro per migrante non accolto da versare nel fondo comune per la gestione europea dei confini. Dunque, versare soldi a chi coordina i respingimenti o i non salvataggi (come Frontex nel caso dell’ultimo naufragio). Come spiega Annalisa Camilli nell’ultimo numero di Frontiere, la newsletter a tema migrazioni che cura per Internazionale, non si è intervenuti sul concetto di Paese terzo sicuro dove operare il respingimento. Semplicemente, se lo Stato dove il migrante viene spedito dopo un respingimento non è sicuro (come appunto Libia o Tunisia) l’Europa se ne disinteressa: tutto sarà gestito tramite accordi bilaterali come quelli stretti dall’Italia con i Paesi di confine al di là del Mediterraneo.
Infine, una notizia sui pirati.
Prima cosa a cui abbiamo pensato.
Il 9 giugno il ministro della Difesa, Guido Crosetto, ha diffuso una notizia: dei pirati stavano tentando di dirottare una nave commerciale all’altezza di Ischia, partita dal porto turco di Topçular e diretta in Francia. Nulla di tutto ciò stava succedendo: semplicemente 15 persone (alcune siriane, altre afghane e altre ancora irachene) si erano nascoste a bordo della nave per fuggire dalla Turchia. L’unico atto di “violenza”, in conseguenza del quale alcuni dei migranti sono stati denunciati per possesso di armi: avevano tagliato il telone di un camion per far passare un po’ d’aria, usando due coltelli e un taglierino.
Nella settimana della morte di Berlusconi, però, il governo ha deciso di onorare la sua memoria portando a casa una riforma che il Cavaliere, ovunque sia finito, non potrà fare a meno di apprezzare: la riforma della giustizia.
E non è una gag, gliel’hanno dedicata davvero. Ma cosa memiamo a fare.
Il ddl introduce alcune modifiche che nemmeno i governi Berlusconi erano riusciti a rendere effettive: viene implementato, ad esempio, lo stop alla pubblicazione di pezzi di intercettazioni non utilizzati nel corso del dibattimento o non compresi nei provvedimenti del giudice, e l’inappellabilità delle sentenze di assoluzione nei casi di reati lievi già dal primo grado.
Ma il vero fulcro della riforma è l’abolizione del reato di abuso d’ufficio. Una norma che viene vista dagli amministratori locali - anche di centrosinistra, a giudicare dalle spaccature sulla proposta all’interno del PD - come un limite alle proprie prerogative; la cui abolizione, tuttavia, rischia di essere un liberi tutti per comportamenti illeciti che hanno portato a oltre 3.623 sentenze definitive negli ultimi 25 anni, come afferma oggi il prof. Gianluigi Gatta su Repubblica. Con, all’orizzonte, anche possibili infrazioni europee per il mancato rispetto delle direttive comunitarie.
Menzione speciale a Libero per la copertina più involontariamente ironica.
Una riforma, questa, che potrebbe avere conseguenze anche sul piano degli equilibri politici. Secondo Repubblica, infatti, il terzo polo e in particolare la componente di Italia Viva sarebbe orientata a votare a favore della riforma al suo passaggio alle camere, con la neo-coordinatrice di Italia Viva Raffaella Paita che ne difende il principio garantista “sancito dalla nostra Costituzione”. Con questa mossa i numeri di questa “supermaggioranza” salirebbero a 259 deputati su 400 e 125 senatori su 200: un margine di sicurezza tale da poter assorbire eventuali sconvolgimenti interni a Forza Italia.
E in effetti, come sta la creatura di Berlusconi dopo la scomparsa del suo artefice? Stamattina in conferenza stampa Antonio Tajani, che con tutta probabilità verrà nominato presidente “reggente” del partito, ha annunciato che Forza Italia andrà a congresso, con tutta probabilità dopo le elezioni europee, quindi nell'estate del 2024.
Ma la strada che porta al congresso è tutto fuorché spianata: già sulla convocazione del Comitato di presidenza, che si riunirà giovedì prossimo, le “correnti” più vicine a Licia Ronzulli e Renato Schifani si erano espresse in maniera contraria; e intanto Giorgia Meloni e Marina Berlusconi provano a discutere di un accordo che metta al sicuro sia il governo che le aziende del Cav. Al riparo, probabilmente, dalla figura sempre più ingombrante di Marta Fascina.
O magari Meloni ha già in mente il profilo ideale per sostituire B.
Per oggi è tutto.
Vi salutiamo ricordandovi che sia la settimana scorsa che questa settimana siamo stati ospiti dei nostri amici di Carenza di Basso per il loro podcast Pogo in Cameretta.
A questo giro parliamo dei festival a cui vanno Elly Schlein e Carlo Calenda e di che musica ascoltano i ministri del governo Meloni. Insomma, una puntata bipartisan.
Noi, confidando che nel frattempo non muoia un altro protagonista di primo piano della politica italiana, ci sentiamo venerdì prossimo.
Ciao!
Iemm nnanz!un pochino di amarezza😚