6 agosto - Anche basta
Ciao!
Siamo Simone e Pietro,
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Chiudiamo questa piccola parentesi prima di cominciare ricordandovi che riceverete questa newsletter sei giorni a settimana con aggiornamenti sulla campagna elettorale, e che ogni domenica vi proponiamo un approfondimento tematico. Per qualsiasi dubbio, scriveteci a buoneintenzioninewsletter@gmail.com o ai nostri profili instagram, @simonemartuscelli e @pietroforti.docx.
Finiamo questa prima settimana come l’abbiamo cominciata: con i litigi interni alla coalizione che dovrebbe tenere uniti Partito Democratico, Azione/+Europa, Europa Verde/Sinistra Italiana e altri alleati (Impegno Civico, Demos, PSI e via discorrendo).
Se ci si riflette un attimo, stiamo assistendo a qualcosa di eccezionale. Le elezioni sembravano molto vicine il 20 luglio quando, caduto il governo Draghi, iniziava a circolare il 2 ottobre come possibile data per il voto. Oggi è il 6 agosto, e si vota il 25 settembre.
Non vorremmo essere ripetitivi, ma è evidente che c’è chi se la sta vivendo molto meglio questa campagna elettorale. Probabilmente anche meglio di noi.
Da dove cominciamo?
Per esempio, da Enrico Letta.
Il segretario del PD sta vivendo una sorta di incubo. Dal marzo 2021, quando è stato plebiscitariamente eletto segretario dall’assemblea del partito, è risultato quasi sempre vincente nei vari agoni elettorali locali. Sembrava riuscisse anche nell’impresa di tenere unito un partito mai così spaccato in correnti come durante la segreteria precedente.
Se il PD soffriva un po’ l’essere l’unico alfiere del governo Draghi tra i partiti maggiori (l’unico a non sollevare mai dubbi sulla gestione della pandemia, sulla gestione dei rapporti internazionali dall’invasione dell’Ucraina, l’unico a sostenerlo con forza sulle diatribe relativo a catasto e concorrenza e via dicendo) si poteva consolare con le vittorie alle amministrative.
A ottobre, correndo da solo in quattro sulle cinque grandi città d’Italia al voto, aveva sbaragliato la concorrenza: Beppe Sala a Milano, Stefano Lorusso a Torino, Matteo Lepore a Bologna provavano che il PD nelle grandi città era in grado di dominare. Non è un caso che nelle mappe questi comuni siano tra i pochi punti colorato di rosso acceso.
A Napoli, un tempo roccaforte 5 Stelle, l’ex ministro dell’economia Gaetano Manfredi era eletto sindaco con una grande maggioranza grazie alla forte alleanza tra PD e Movimento. Azione di Carlo Calenda appoggiava l’ex sindaco Antonio Bassolino.
Quando ha visto che il candidato parlava più alla destra che alla sinistra, Calenda ci si è fiondato.
A Roma, l’ex ministro Gualtieri vinceva con meno difficoltà del previsto: senza 5 Stelle (che correvano soli con Raggi, che il PD aveva sperato fino all’ultimo si facesse da parte), senza Calenda (che arrivando terzo con un sostanzioso 20% lanciava il suo personalissimo “modello Roma”) era arrivato secondo di poco al primo turno per poi sbaragliare Enrico Michetti al ballottaggio.
Una nuova prova di forza è stata la serie di vittorie diffuse al giro di amministrative di giugno, in particolare a Verona, saldamente in mano alla destra sino alla vittoria di Damiano Tommasi.
Non è stato un gran momento per i titolisti.
Era questa l’alleanza che Letta voleva per le politiche, che si sarebbero dovute celebrare nel 2023: candidati unitari, popolari e sorridenti, programma roseo. La ricetta per battere la destra con un campo largo che andasse dalla sinistra ad Azione passando per i 5 Stelle.
(Il PD non ha mancato di ricordare a Calenda che a Verona già governano con Sinistra Italiana e Verdi. Omettendo, però, che lì in mezzo c’è anche il Movimento.)
Ecco, questa luna di miele è finita il 20 luglio con la caduta del governo di Mario Draghi, che come vi abbiamo già fatto notare Letta non si aspettava. Lì ha avuto inizio la danza dei veti inderogabili, con la chiusura violenta ai 5 Stelle responsabili della deposizione di Draghi.
È dal 21 luglio che all’interno del campo opposto alla destra continuano a volare stracci. Ieri Calenda si è espresso - neanche a dirlo, su Twitter - per esprimere la propria indisponibilità a rivedere il patto siglato con il PD, parlando di “partiti zattera e iniziative incoerenti” che continuano ad aggiungersi ogni giorno alla coalizione. Riferendosi ovviamente alla lista che vede uniti Sinistra Italiana e Verdi.
Un’asserzione di superiorità basata su un patto scritto con il PD ma difficilmente giustificabile altrimenti, dato che sia i sondaggi - la supermedia di YouTrend di ieri assegna alla lista Azione/+Europa il 5%, a quella di SI/Verdi il 4% - che le proiezioni sui seggi - in caso di assenza della gamba “di centro” il PD perderebbe circa 16 collegi in più, se mancasse la lista di sinistra la perdita sarebbe di 14 seggi - indichino come il peso delle due liste all’interno della coalizione sia sostanzialmente equiparabile.
Per spiegarla, Fratoianni si affida alla psicologia.
Dall’altra parte, se i Verdi hanno già espresso la loro volontà di confermare la coalizione con i Dem, rifiutando le sirene a 5 Stelle, Sinistra Italiana deciderà oggi attraverso una votazione in assemblea nazionale quale tipo di strada percorrere.
Questa mattina Repubblica afferma che una parte di SI, sia tra i militanti che tra i dirigenti - tra cui l’ex senatrice pentastellata Elena Fattori - spingerebbe, in assenza di un “campo larghissimo” che includa anche la compagine di Conte, per preferire proprio il Movimento alla coalizione di centrosinistra. Secondo Serena Pillozzi, nella segreteria nazionale di SI, il programma dei 5 Stelle è “quello più vicino ai nostri temi”.
L’impressione è che, nonostante le spaccature che sembrano incolmabili, alla fine le velleità maggioritarie che impongono la più larga unità possibile avranno la meglio. Ma arrivati a questo punto, e dopo un tale siparietto, è davvero la scelta migliore?
Se lo chiede anche Letta, che sempre secondo Repubblica starebbe valutando anche una leva d’emergenza: abbandonare il progetto di coalizione e correre da soli. Andando incontro probabilmente ad una sconfitta di proporzioni disastrose ma “con entusiasmo e fiducia”, secondo Orfini. In maniera leggermente più degna, secondo una persona dotata di maggior senso della misura.
Ieri l’ennesimo scambio surreale su Twitter ha messo in evidenza una cosa molto chiara: se non ci fosse questa legge elettorale il problema non si porrebbe nemmeno, e non si parlerebbe di litigi unicamente incentrati su seggi, veti, incompatibilità da superare con la forza e antipatie. Al momento c’è un motivo molto chiaro per cui c’è ancora la possibilità che Azione/+Europa e Sinistra Italiana/ Verdi, che hanno programmi tra loro conflittuali (in particolare sulla politica energetica): non c’è bisogno di un programma condiviso. Ci si presenta al voto d’accordo su niente, e la coalizione di centrodestra ne è la dimostrazione.
E infatti Berlusconi ci ha provato. Ma l’unica cosa che separa Renzi dal centrodestra è il sostegno a Draghi.
Ed è un attimo che le elezioni “per la difesa della democrazia” diventano una questione di costume, con una buona parte della coalizione che accusa Calenda di “sbagliare i toni” o di essere una sorta di talebano politico.
D’altronde, precisamente tre anni fa si discuteva nostalgicamente di Aldo Moro in giacca e cravatta in spiaggia, anziché cercare di capire quale fosse il motivo per cui stesse per cadere un governo. Quella crisi ancora porta il nome di uno stabilimento di Milano Marittima.
Lunedì inauguravamo questa newsletter dicendo che la telenovela si sarebbe chiusa entro la giornata. Poveri illusi.
Ci risentiamo dopodomani con gli aggiornamenti della campagna elettorale. Domani è domenica, e finalmente vi presenteremo il nostro primo supplemento tematico.
Come abbiamo scelto il primo tema? Semplicemente sappiamo che non sarà un argomento di questa campagna elettorale, anche se tocca letteralmente ogni persona che vive in Italia. Come molti altri.
A domani!