Ciao!
Siamo Pietro e Simone,
e questo è l’ultimo numero di Buone intenzioni sul voto.
Dal primo agosto vi abbiamo parlato di programmi, proposte, comizi, dibattiti, scontri, post, TikTok, tweet. Ma il 13 ottobre si riuniranno per la prima volta le camere, e inizierà ufficialmente la XIX legislatura.
Per quest’ultimo numero abbiamo pensato di fare una cosa diversa. Anche perché, finalmente, i giornali non sono più dominati esclusivamente dal nulla della politica italiana, ma sono pieni invece di tutto ciò di cui si dovrà occupare il prossimo parlamento.
È stata una campagna elettorale breve ma, soprattutto per due alle prime armi con un lavoro giornalistico quotidiano, davvero sfiancante. Noi, poi, se volevamo dire qualcosa lo abbiamo detto prevalentemente coi meme, nostri o altrui.
Ma su questa campagna elettorale e sull’esito del voto c’è davvero tanto da dire.
Iniziamo.
Quando si sa che sta per morire una persona importante, spesso il giornale si affida alla redazione la stesura del cosiddetto “coccodrillo”, un pezzo che trasudi lacrime. Scritto prima della morte della suddetta persona.
Ecco, questa campagna elettorale breve ma infinita ha avuto più o meno sempre questo sapore.
Le anomalie di questa campagna elettorale si sovrappongono a quelle dell’ultimo anno e mezzo di legislatura. Le dimissioni del governo tecnico forse più “politico” della storia repubblicana non erano previste, come non era previsto che portassero al crollo immediato di un’alleanza piuttosto solida come quella tra Partito Democratico e Movimento 5 Stelle. La scelta di Giuseppe Conte di non rinnovare la fiducia al governo di Mario Draghi e la conseguente scelta di Enrico Letta di rompere l’alleanza prima delle elezioni potevano avere altre conseguenze?
La prima settimana di agosto ha fatto il resto. La coalizione mai nata tra il PD e Carlo Calenda, che non poteva che dominare i primi numeri di questa newsletter, è stata l’ennesimo sintomo di questa sorta di crisi di panico post-caduta del governo. Era accompagnata, poi, dal patto “esclusivamente elettorale” con Sinistra Italiana e Verdi. Quando Letta, nel confronto a due con la sua avversaria, ha candidamente ammesso che in caso di vittoria non avrebbe voluto governare insieme ai suoi unici alleati non ci si poteva stupire più di tanto.
Un altro dato interessante è che le campagne elettorali vere e proprie sono durate pochissimo. I partiti hanno iniziato a parlare di proposte molto tardi. I programmi sono usciti tutti intorno a metà agosto, ma prima di inizio settembre non si è visto mezzo comizio. E quando, a campagna praticamente appena iniziata, è scattato il blackout dei sondaggi i leader di partito hanno iniziato a brancolare nel buio. Tutti, tranne una.
Del campo opposto alla destra si è sentito parlare solo in termini di alleanze, candidature e candidature mancate, correnti, scelte politiche passate da rivedere. Il tutto mentre mancava poco più di un mese dal voto. Non vogliamo dire che se gli elettori ti sentono parlare tutto meno che di loro è difficile che ti votino... ma ops, l’abbiamo detto.
Non che gli avversari, usciti vincitori, abbiano fatto di meglio in termini di programmi. Hanno parlato talmente poco di temi che le proposte contestate dagli avversari erano flat tax (una proposta vecchia di cinque anni) e blocco navale (che nel programma di fatto non c’era).
Fratelli d’Italia ha presentato il suo programma con tutta calma, molto dopo gli altri partiti. Delle proposte del primo partito italiano nessuno, in buon cuore, saprebbe citarne mezza senza prima rileggerla.
Perché, allora, ha vinto? È una domanda difficile a cui anche noi vogliamo provare a dare una risposta facile.
Spesso si è detto che Giorgia Meloni sia stata premiata per la sua coerenza. Sarà anche vero. Ma il dato politico inequivocabile è che ha avuto una pazienza di santa.
È stata premiata per essere rimasta alleata con due soggetti politici che hanno fatto di tutto per metterle i bastoni tra le ruote. Anche quando, a poche decine di giorni dal voto, hanno chiesto le dimissioni di un presidente di Regione per candidare un altro esponente politico, in aperto contrasto con le regole concordate interne all’alleanza.
Non hanno mai smesso, poi, di causarle problemi con le loro posizioni politiche allucinanti in termini di politica estera. Nel chiedere seggi e candidatura non è stata esosa nell’approfittarsi di sondaggi che la davano in testa di una decina di punti percentuali sull’alleato più competitivo (che alla fine ha staccato quasi del 18%). Non ha nemmeno acuito lo scontro con un segretario, suo alleato, che l’ha attaccata incessantemente per tutta la campagna, dando sponda ai giornali che non vedevano l’ora di sentirli litigare.
Questa scelta alla fine ha pagato. E, vittoriosa, si è lasciata andare (sia prima che dopo il voto) alla soddisfazione. Perché la sua gente, dopo aver avuto tanta, tanta pazienza contro avversari isterici e stanchi, ha potuto “rialzare la testa”.
Il dato politico quindi è inequivocabile, e si conosceva benissimo il risultato da molto tempo. Ma nonostante questo la reazione alla sconfitta è stata isterica tanto quanto quella che è seguita alla notizia della caduta del governo Draghi.
Il 26 settembre è partita una rincorsa alla vittoria nella sconfitta, l’unico modo con cui un leader politico perdente accetta di leggere una debàcle politica mostruosa. Matteo Salvini ha dichiarato che il quasi 9% “è un punto di partenza” tre anni dopo il 34% delle elezioni europee. Carlo Calenda ha dichiarato che il risultato del terzo polo è “il migliore di sempre per un nuovo partito”, omettendo che Italia Viva e Azione sono ancora due partiti distinti e soprattutto che il dato del Movimento 5 Stelle del 2013 (nove anni fa, non cinquanta) era molto, molto più alto. Giuseppe Conte ha sostenuto, a ragione, che quella del Movimento 5 Stelle fosse una “grande rimonta”, ma non ha voluto sottolineare i milioni di voti persi in quattro anni e mezzo passati al governo (di cui tre con lui stesso premier).
Ma nessuno interpreta questo momento di denial come il PD.
Nella notte tra il 25 e il 26 settembre il Partito Democratico manda in pasto alla stampa Debora Serracchiani, capogruppo alla Camera uscente (e mai una volta in vita sua in minoranza nel partito). La linea è già chiarissima: siamo in minoranza in parlamento ma siamo la maggioranza nel paese, abbiamo perso per colpa della legge elettorale, faremo un’opposizione dura e intransigente. Ma allora perché nel partito tutti sono nel panico?
Innanzitutto per la misura della sconfitta. Nei giorni della crisi di governo i sondaggi indicavano il Partito Democratico al 23%, a poco più di un punto da Fratelli d’Italia e con il Movimento 5 Stelle relegato al 10%. I risultati della nottata elettorale invece dicono che il margine tra PD e M5S si è ridotto da 13 a 3.5 punti percentuali, il divario con FdI è diventato incolmabile e il principale partito del centrosinistra è finito persino sotto la soglia psicologica del 20%: poco meglio del voto di quel 4 marzo 2018 che sembrava essere il fondo del barile ma da cui il PD non sembra in grado di risalire.
Ecco, il fantasma del 2018 è uno dei motivi del panico nel centrosinistra. Quel voto sembrava figlio di un’onda inarrestabile a livello mondiale, la stessa che aveva portato la Brexit o Donald Trump; e la risposta del centrosinistra all’epoca, i popcorn di Matteo Renzi, fu esattamente orientata ad aspettare che “la nottata passasse”.
Poche e sparute voci affermavano, all’epoca e durante tutti questi anni, che se i progressisti fossero rimasti fermi, dopo una prima ondata di “populisti” ne sarebbero arrivati altri, anche più pericolosi. Evidentemente, non sono stati ascoltati.
Il ripetersi della tragedia del 4 marzo, insomma, è la conferma che non basta aspettare tempi migliori, ma è necessario agire per crearli. Per un partito che nella paralisi che non scontenta nessuno trova l’unica via per restare in vita, il panico è legittimo.
La cosa più vicina ad una mossa strategica portata avanti in questi anni, a partire dalla segreteria Zingaretti, è stato l’avvicinamento con il Movimento 5 Stelle. A riguardo, col senno di poi, si potrebbero spendere fiumi di parole. Come sarebbe andata se l’accordo fosse rimasto in piedi? Si poteva fare di più perché accadesse? E di chi è la colpa? Tante vicende, tante domande, direbbe Brecht.
Il dato politico che resta è la scelta di abbandonare la strategia perseguita negli ultimi tre anni sull’altare del draghismo, per poi lasciare comunque quella bandiera ad altri (Calenda-Renzi). Un’ambiguità in mezzo alla quale il PD è rimasto schiacciato.
La campagna elettorale si è conclusa come tutti si aspettavano. Ma nessuno sa, davvero, cosa aspettarsi dai prossimi anni di opposizione. Già si sentono scommesse sulla durata del governo, sulla tenuta della maggioranza, sui litigi tra Meloni e gli alleati. La realtà è che il nascituro governo ha tutte le carte in regola per rimanere al potere per gran parte della legislatura e agire indisturbato. Nel 2011, Silvio Berlusconi aveva già governato per tre anni e mezzo prima di dimettersi, e c’era voluta una crisi internazionale e una bancarotta sfiorata per farlo dimettere. Da allora, la destra dal governo se n’è andata solo quando voleva: nel 2019, con la mossa sconsiderata di Salvini, e nel 2022, quando Forza Italia e Lega si sono riuniti con gioia a Fratelli d’Italia per andare a vincere le elezioni.
Preoccupano i rapporti con l’Europa? Non abbiamo idea di quel che succederà, perché Meloni dà segnali rassicuranti nei momenti giusti e aizza le folle quando può. Preoccupa la salvaguardia dei diritti? Meloni lascia fare il lavoro sporco alla sua base già scatenata o, nel migliore dei casi, agli amministratori del suo partito, come Francesco Acquaroli nelle Marche, terra dove l’aborto è sostanzialmente impraticabile. Preoccupa la tenuta economica del paese? Meloni è pronta a seguire Draghi dando qualche contentino ai suoi famelici alleati, affamati di riforme fiscali improbabili. Preoccupa la povertà? La crisi era in conto e va avanti da un po’, e Meloni si confronterà come può con l’Europa delle nazioni che tanto ama. Preoccupa la gestione dell’immigrazione? Meloni saprà bilanciare provvedimenti e show, seguendo la linea dei predecessori sulla Libia e scagliandosi quanto può contro i nemici giusti. Preoccupa la crisi climatica? Beh, Meloni l’ha detto plasticamente qualche settimana fa: nessuno ama l’ambiente come un conservatore, dove è proprio il sibillino “come” a non essere rassicurante.
È virtualmente impossibile sapere cosa succederà anche perché, come già detto, il programma di Meloni è talmente poco indicativo di ciò che farà, che qualsiasi opposizione basata su quello sarebbe totalmente fuori fuoco.
L’opposizione alla destra si è sempre basata su ciò che faceva il governo di turno, in maniera completamente discontinua e disorganica. Berlusconi prima e Salvini poi sono stati messi sotto tiro per questioni di costume, tanto che dell’esperienza di governo dei due si ricordano principalmente bunga bunga da una parte e Papeete dall’altra.
Meloni si porta dietro un’eredità di costume piuttosto pesante, e l’unica cosa prevedibile è che l’opposizione mirerà ad attaccarla proprio per quella. Ma mettere sotto tiro gli usi e, appunto, i costumi di chi governa non è fare opposizione, men che meno “dura e intransigente”. A un dominio così forte e così radicato in tutta Europa di un’idea politica non si può che opporre un’idea di società diversa.
Ma per proporre un’idea di società di certo non bastano le buone intenzioni.
È finita la campagna elettorale e con essa anche il vostro (e nostro) sfiancante rito giornaliero. Noi torniamo il 14 ottobre, il giorno dopo la riapertura delle camere, e da allora ci sentiremo una volta alla settimana. E sì, ci saranno anche i meme.
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Vi ringraziamo per averci seguito finora, e speriamo che vorrete continuare a leggerci, per provare ad esservi d’aiuto anche a legislatura avviata.
Già ci mancate.
A presto!
Più bravi di così non è possibile 💓