Ciao!
Siamo Pietro e Simone,
e questo è il quarto approfondimento tematico che tanto avete aspettato. Non è domenica, ma comunque il clima da rientro dalle vacanze è quello.
Scusateci ancora per il rinvio.
Saltiamo ulteriori introduzioni: oggi parliamo di disuguaglianze. È un tema piuttosto complicato, e proprio per questo abbiamo deciso di affrontarlo dalle basi, pur sempre rimanendo ancorati alla campagna elettorale.
Per capire come ridurre le disuguaglianze, il primo tema che si pone è il modo di raccogliere i fondi destinati agli interventi necessari.
Per il centrodestra, il problema non sembra porsi. Pur non mancando all’interno dei programmi della coalizione proposte anche dispendiose riguardanti il sociale, la parte sul fisco è totalmente priva di qualsiasi accenno alle coperture. Dei progetti riguardanti la flat tax e la pace fiscale vi avevamo già accennato qualche numero fa, ma i tagli non finiscono qui: si parla anche di “abolizione dei micro tributi”, sgravi fiscali per le imprese ispirati al principio “chi più assume, meno paga” e un no secco a “patrimoniali dichiarate o mascherate”.
Se la definizione di “pazzie” è molto aleatoria, sui buchi di bilancio c’è poco margine di interpretazione.
Il riferimento, probabilmente, è alla proposta del Partito Democratico di finanziare la dote ai diciottenni proposta da Enrico Letta con la “modifica dell’aliquota dell’imposta sulle successioni e donazioni superiori ai 5 milioni di euro (pari allo 0,2% del totale delle eredità e donazioni in Italia)”. Una modifica minima, che si potrebbe definire sacrosanta in uno dei paesi con le più basse tasse di successione in Occidente. Ma che basta alla destra per agitare il fantasma della patrimoniale.
Non riusciamo a non vedere Briatore nei panni del drago Smaug.
Ma probabilmente, la realtà è molto più semplice di quanto si pensi. Qualche giorno fa Antonio Tajani, parlando dei fondi necessari per la flat tax, sosteneva: “sappiamo dove andare a trovarli, ad esempio ridisegnando tutte le politiche di assistenza sociale. Vogliamo che lo Stato aiuti chi ha bisogno, ma chi deve andare a lavorare deve andare a lavorare”. L’assenza di coperture dichiarate, quindi, significherebbe semplicemente l’ennesima serie di tagli alle misure di sostegno sociale; nonostante nel programma del centrodestra si legga di “ridefinizione del sistema di ammortizzatori sociali al fine di introdurre sussidi più equi ed universali”.
E da dove prendere i soldi, se no?
Uno dei punti su cui lo scontro è da sempre ad alta tensione è il reddito di cittadinanza, uno dei pochissimi strumenti approvati nella scorsa legislatura, se non per affrontare le disuguaglianze, quanto meno volte al contrasto della povertà.
Dei due principali partiti che hanno governato con il M5S, uno gli si opponeva con forza prima di formarci un governo (tanto da votargli contro) e l’altro sostiene di aver sbagliato ad aiutare ad approvarlo.
Great minds think alike.
L’unico momento in cui si è parlato concretamente di migliorie da apportare al RdC è arrivato quando il ministro del Lavoro del governo Draghi, Andrea Orlando, ha affidato alla professoressa Chiara Saraceno la presidenza di una commissione per la stesura di una relazione sul reddito di cittadinanza. Le migliorie proposte dalla Commissione Saraceno sono state inserite nel programma del PD.
A detta di Saraceno stessa, tuttavia, la relazione chiesta dal ministro sarebbe stata messa «in un cassetto». La professoressa confessa in un’intervista a Micromega che «l’unico obiettivo reale era la riforma degli ammortizzatori sociali. E, dall’altra parte, il Movimento 5 stelle non è mai stato intenzionato a migliorare il Reddito di cittadinanza, ma solo a difenderlo».
E in effetti che il programma del M5S sia granché esplicativo a riguardo.
Nella prossima legislatura, con la destra verosimilmente al governo con un’ampia maggioranza, il reddito di cittadinanza rischia seriamente di essere abolito. La Lega di Matteo Salvini, che l’ha approvato nel governo Conte I, propone di toglierlo a chi non è “inabilitato al lavoro” e di finanziare, con gli stessi soldi, corsi di formazione, un coinvolgimento di agenzie private del lavoro e altri ammortizzatori sociali.
Giorgia Meloni si è espressa l’ultima volta con una proposta a febbraio del 2021, elencando le ragioni dell’opposizione del partito al governo Draghi. Fratelli d’Italia, sostanzialmente, propone di sostituire il RdC con una misura molto meno costosa (e meno vantaggiosa per chi la richiede), ovvero un “assegno di solidarietà”. In sintesi: 300 euro a famiglia con un’aggiunta di 250 a figlio, fino a un massimo di 750 euro, per un massimo di 12 mesi, rivolti solamente a chi è privo di reddito il mese precedente e con sola prima casa intestata.
In ogni caso, non abbondano proposte per il sostegno al reddito che siano alternative al reddito di cittadinanza.
Fatta eccezione per Azione e Italia Viva, che propongono una misura esclusivamente rivolta a chi torna da un congedo di maternità, guardando chiaramente con nostalgia ai tempi del Fertility Day.
Un altro grande tema da campagna elettorale, in un paese che invecchia, sono le pensioni. Un particolare: dai partiti non viene mai affrontato con la lente della redistribuzione della ricchezza.
L’osservatorio dell’INPS sulle pensioni ha rilevato che più di due terzi delle pensioni erogate sono inferiori ai mille euro. Le disuguaglianze si fanno più pesanti, come sempre, quando si guarda al rapporto tra generi: le donne che percepiscono pensioni di vecchiaia sono circa il 48% in meno rispetto agli uomini, e il 20% in meno percepisce pensioni di assistenza. Inoltre, l’83% delle “pensioni minime” (645 euro lordi/mese) sono erogate a donne.
Qualsiasi proposta a riguardo, però, gira intorno alla Legge Fornero, la legge che regola il sistema pensionistico (salvo deroghe), che dal dicembre 2011 ha reso oggettivamente più difficile e meno vantaggioso andare in pensione. L’età massima entro cui andare in pensione fu alzata sino a 67 anni; per la pensione anticipata si stabilì che occorrevano 41 anni e 10 mesi di contributi (in precedenza erano 12 mesi in meno); infine, ci si basava sui contributi versati e non più sull’importo dell’ultimo stipendio. La riforma è diventata sempre più impopolare nel corso del tempo. Il governo gialloverde nel 2018 propose una sorta di “palliativo”: dal 2018 al 2021 è stata istituita la “quota 100” (va in pensione chi ha 62 anni di età e 38 anni di contributi), dal 2022 è in vigore “quota 102” (64 anni + 38 di contributi) e nel 2023 si sarebbe dovuti ricorrere a “quota 104”. Queste misure, però, sono piuttosto costose, per quanto meno di quanto detto e scritto (e previsto dai vari governi) da quando sono state approvate.
Più o meno come i lavoratori italiani ultrasessantenni stanno vivendo l’avvicinarsi del ritorno della legge Fornero.
I partiti, però, fatta eccezione per la quota 41 salviniana e per le pensioni minime a mille euro di Silvio Berlusconi hanno proposto ben poco, e ci si è rifatti generalmente alla “flessibilità” per l’uscita dal mondo del lavoro.
Ciò è vero soprattutto per la premier in pectore Giorgia Meloni che, al contrario degli alleati, si è sbilanciata davvero poco, parlando di “flessibilità selettiva”, qualcosa di non troppo dissimile da quanto proposto da PD e 5S (che pure hanno parlato di “pensione anticipata per le mamme lavoratrici”).
L’ultimo capitolo di cui ci occupiamo è quello legato alle altre misure di coesione sociale.
Il programma del centrodestra sulla salute è un concentrato dadaista di smentite rispetto a posizioni prese in passato. Il primo punto, ad esempio, riguarda lo “sviluppo della sanità di prossimità e della medicina territoriale”, che indubbiamente garantirebbe la possibilità di un accesso più equo ai servizi medici.
Qualche tempo fa, però, non era una priorità.
Inoltre, in almeno tre punti su sette rientra o viene menzionata la parola “pandemia”.
Come sopra.
Per il resto, il programma del centrodestra si fa notare per un’attenzione quasi morbosa al nucleo familiare come recettore delle politiche sociali; per l’incentivo al “welfare aziendale”, che suona come una volontà di deresponsabilizzare le istituzioni pubbliche; e, nella parte sull’istruzione, per la volontà di reintrodurre il “prestito d’onore” per studenti universitari: in sostanza, un debito per finanziare i propri studi che verrà ripagato dopo l’inserimento lavorativo.
Proprio mentre negli Stati Uniti si accorgono di dover cancellare alcuni di questi debiti.
Nei programmi degli altri, per quanto riguarda la sanità, è da segnalare un piano straordinario per la salute mentale promosso dal Partito Democratico, il riferimento più importante ad una struttura più articolata per il benessere psicologico.
L’unica menzione alla salute mentale nel programma del M5S. Al compimento dei 18 anni non c’è più bisogno dello psicologo.
Infine, sull’istruzione, sia M5S che PD propongono un aumento degli stipendi in maniera da allinearli con la media europea, ma se il piano del Movimento prevede poco altro (ad esempio una “scuola dei mestieri” per valorizzare e recuperare la tradizione dell’artigianato italiano), quello del Partito Democratico sembra più articolato e indirizzato al contrasto delle disuguaglianze.
Anche se non mancano le proposte bislacche.
Ultima nota: il programma di Azione e Italia Viva dedica molto spazio all’istruzione, con proposte anche vagamente interessanti. Prima di perdersi nella proposta di far diventare tutte le università delle fondazioni di diritto privato (anche se a capitale totalmente pubblico) per “consentire all’università italiana di competere con tutte le sue energie e potenzialità nel mercato globale”. Dalle menti dei macroniani d’Italia non poteva uscire nulla di diverso.
In ritardo e prolissi, ma abbiamo anche dei difetti.
A domani!
Meravigliosi🤗